L’eterna Confederazione
che anima
la rivolta trumpista

Nel film Big Jake, John Wayne, che tipicamente è impegnato in una rocambolesca ricerca del nipote rapito da cattivi, a chi gli dice “pensavo fossi morto,” risponde, “mica tanto.” Questo scambio mi è venuto in mente guardando le orde che assaltavano il Campidoglio il 6 gennaio correndo dietro alla bandiera della Confederazione. La Confederazione fu sonoramente sconfitta nella Guerra civile e la schiavitù completamente delegittimata e abolita, ma il modo di pensare e sentire che sosteneva quella società, le sue abitudini culturali, e la nebulosa di instinti oscuri e insondabili pulsioni che la caratterizzarono sono vivissime.

L’odio che anima il mito dell’America cristiana

Ho intenzionalmente usato, parafrasando, le parole di Umberto Eco e il suo saggio del 1995 «L’eterno fascismo» come mappa orientativa per spiegare come negli Stati Uniti ci troviamo di fronte all’«eterna Confederazione». Questo fatto ovviamente non esclude che la si possa chiamare fascista, ma è importante indicare le specifità di questo fascismo, che nessuna sinistra, anche la più forte e unita, potrebbe sopprimere.

È significativo che tra le analisi politiche più interessanti sugli eventi criminali della settimana scorsa sono i commenti di due grandi storici americani della guerra civile e della ricostruzione, il decennio dopo la guerra civile che transformò la sconfitta della Confederazione in una restaurazione del potere dei bianchi nel sud: David Blight (Yale University) e Eric Foner (Columbia University).

L’eterna Confederazione è riconoscibile, interpretando Blight, da alcune tipiche caratteristiche: 1. il mito di un’America cristiana, rurale e bianca fondata su valori antichi, inclusa l’inferiorità delle donne, dei neri e di altra gente di colore; 2. il mito delle grandi città contaminate dalle grandi masse di neri, gente di colore, ed elite intellettuali; 3. l’odio per le elite intellettuali e i media che sarebbero tutti liberali per definizione ed ebrei per composizione, in quanto nemici dei valori antichi; 4. la paura degli immigrati come inquinanti della purezza dell’America; 5. il rifiuto della diversità, che si traduce in razzismo; 6. un senso esagerato della propria superiorità che non potendo essere dimostrato si trasforma in mascolinità tossica ma fondamentalmente così debole, da aver bisogno di armi per essere esibita; 7. la convinzione che la società bianca e cristiana di prima della caduta può essere restaurata con la violenza di pochi.

Eric Foner ci ricorda che quello del 6 gennaio non è stato il primo tentativo di sovvertire le elezioni negli Stati Uniti. Durante la Ricostruzione ci furono episodi molto più violenti. Quel che è peggio, ebbero successo. Non stiamo parlando del Ku Klux Klan, che pure fece del suo meglio per terrorizzare i neri.
Nel 1873 a Colfax, in Lousiana, molti membri di una milizia nera che difendevano il governo locale composto da eletti neri furono massacrati da squadracce di bianchi che presero il controllo del governo. Nel 1874 la White League cercò di sovvertire il governo dello stato della Louisiana. A New Orleans un monumento eretto per celebrare questo episodio criminale è stato rimosso solo nel 2017 dal sindaco Mitch Landrieu. Nel 1898, un coup di bianchi in Wilmington, in North Carolina, cacciò il governo eletto locale, perché era birazziale.

L’uso spregiudicato della tecnologia

L’articolo 3 del 14esimo Emendamento della Costituzione Americana, ratificato nel 1868, bandisce dal governo e da uffici pubblici chiunque abbia fatto parte di insurrezioni o ribellioni contro la Costituzione. Fu scritto con la Confederazione in mente, perché erano stati i politici e i leaders degli stati del sud a tradire il paese. Lo stesso articolo ha guidato la redazione dell’impeachment di Donald Trump. Appropriatamente.
Alla fine del ventesimo secolo, meno di quarant’anni dopo la sconfitta della società schiavista, l’eterna Confederazione aveva soppresso in tutto il sud il diritto di voto e il diritto dei neri di essere eletti. Da allora ad oggi è passato molto tempo, i diritti civili sono stati restaurati, un presidente nero, Barack Obama, è stato eletto. Ma è nel 2013, solo sette anni fa, che la Corte Suprema ha eviscerato delle disposizioni chiave del Voting Rights Act, permettendo ai repubblicani che controllano le legislature statali di sopprimere la capacità di votare dei neri.

L’eterna Confederazione, come il fascismo, è piena di contraddizioni. Ama la società rurale ma ama forse anche di più la tecnologia. Negli ’80 e ’90, sotto il manto protettore dei presidenti Reagan e Bush, costruì imperi televisivi nel retro delle megachiese della destra religiosa. Oggi, con Trump, adora i social media e tutte le piattaforme online sulle quali il vocabolario dell’odio razzista e antisemita ha facile presa. È comprensibile. Questi nuovi media prediligono il clickbait (acchiappaclick), cioé le parole e i contenuti che fanno da esca per le emozioni forti, e sono efficacissime ad espanderne il pubblico.

La viralità del sensazionalismo dei clickbait, molto spesso basati sul falso, è tutt’altro che neutra. Facilita invece l’obiettivo della destra di rendere accettabili idee precedentemente relegate ai margini, allargando radicalmente la “finestra di Overton”, o l’arco di idee tollerate nel discorso pubblico. Lo slogan di Identity Europa, “Jews will not replace us!” (gli ebrei non ci rimpiazzeranno!) urlato a Charlottesville da manifestanti che brandivano svastiche contro ebrei e neri, e il grido dell’assassino alla sinagoga di Pittsburgh, “All these Jews need to die!” (tutti questi ebrei devono morire!), provengono direttamente dai siti dei suprematisti bianchi. Nel passaggio dalle parole online alla convinzione che gli ebrei siano una minaccia esistenziale sono nate le condizioni per l’uccisione di una dozzina di persone.

Oggi l’eterna Confederazione sta chiamando i suoi ribelli a sovvertire la presidenza di Joe Biden e Kamala Harris, con la violenza se necessario. È importante che venga ancora una volta sconfitta e marginalizzata, almeno temporaneamente.