Marchionne è morto
e la sua è un’eredità
tutta da riscrivere
Sergio Marchionne si è spento nella clinica svizzera che lo aveva ospitato per i suoi ultimi giorni che sono stati accompagnati da necrologi anzitempo. È stato l’uomo che ha salvato la Fiat. E’ stato l’uomo che ha abbandonato la “Fabbrica Italiana automobili Torino” per dar vita alla “Fiat Chrysler Automobiles”. É stato l’uomo che ha ridotto i 120mila dipendenti del 2000 ai 29mila di oggi (anche se circolano le più diverse cifre su questo aspetto), certo anche per il superamento di forme superate di organizzazione del lavoro, ma anche per perdite di mercato. Non proprio un trionfo per le sorti dell’occupazione e per le sorti dell’apparato industriale nazionale.
È stato l’uomo che ha introdotto un nuovo modo di costruire l’automobile con il World Class Manufacturing. Un sistema che secondo una ricerca promossa dalla Fim-Cisl con il Politecnico di Milano e Torino ha segnalato aspetti positivi ma anche elementi come questo: “Si percepisce un aumento del lavoro vincolato e che non è più possibile distrarsi ogni tanto, venuti meno quei tempi morti, per via della riduzione delle attività non a valore aggiunto”.
É stato l’uomo che ha cercato di rompere il fronte sindacale tentando di far uscire dalle fabbriche la Fiom di Maurizio Landini e, nello stesso, tempo facendo uscire la FCA dalla Confindustria nonché la Ferrari dalla gestione di Montezemolo.
É impressionante il peana di esaltazioni riservate oggi a Marchionne dai mass media. Al quale va tutta l’umana pietà. Quasi tutti sembrano averlo considerato morto e sepolto non appena il giovane John Elkann, appena letto il bollettino medico che prevedeva una lunga degenza, lo ha sostituito con l’inglese Mike Manley. Quasi un licenziamento forse decretato in fretta e furia il venerdì sera per impedire contraccolpi in borsa.
Se impressionano le esaltazioni, quasi sempre senza sfumature, altrettanto colpiscono gli sberleffi crudeli spesso riservati sui social. Indice di una barbarie che non rispetta lutti e dolori. Come ha scritto su Facebook Giacomo Zulianello, un operaio Fiom delle Officine Maserati di Grugliasco: “Abbiamo combattuto le idee ed i progetti non l ‘ Uomo, le abbiamo combattute con fermezza e lealmente , ora che è indifeso è da sciacalli attaccarlo. Da sciacalli non da Uomini“. È uscito infatti, a seconda dei casi, sulla rete, il ritratto di un angelo salvatore o di un diavolo divoratore di operai. Sarebbe interessante il parere di suoi predecessori, come Romiti o Montezemolo, non tanto sulla gestione della forza lavoro, quanto su quel che lascia in eredità. Che non è tutto oro.
Certo è stato un eroe della globalizzazione come molti sottolineano, ma non ha capito che i tempi stavano cambiando ed ora, ad esempio, c’è la guerra dei dazi, il dilagare dei populismi. Gli italiani di Salvini con gli italiani, gli americani di Trump con gli americani. Cosicché può capitare, come ha notato Paolo Griseri, su “Repubblica”, che la Renegade, il modello di prima Jeep pensata e costruita fuori dagli Stati Uniti, ora assegnata a Melfi, in Italia, dovrebbe essere costretta a pagare i dazi negli States. Come ha scritto Giuseppe Berta, uno che se ne intende, sul “Sole-24ore”: “Oggi l’industria dell’auto sta mutando di pelle e di assetto sotto la spinta involontariamente convergente della tecnologia, che sta prefigurando scenari imprevisti, e della politica economica della presidenza Trump, che sembra puntare a una svolta protezionistica generalizzata”.
I successori di Marchionne avranno davanti compiti immani, un’eredità tutta da riscrivere. Magari guardando ad altre esperienze. Ha annotato ad esempio, in un saggio, uno studioso, Salvo Leonardi, come esistano alternative al modello Marchionne di fare auto. L’esempio più clamoroso è quello della Volkswagen. Anche qui si fa un contratto di gruppo fuori dal perimetro nazionale di settore, “uscendo verso l’alto, per livelli retributivi”e con un sistema di codeterminazione che risale a una legge del 1960.
Già la codeterminazione, la possibilità di dare ad operai, impiegati e tecnici un ruolo non passivo, ma determinante. Una carta vincente per dare impulso a un impresa vincente. Un’idea cara a Bruno Trentin che aveva intitolato quel suo primo libro: “Da sfruttati a produttori”.
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