L’ego di Trump
pericolo per gli Usa
Dopo l’accoglienza imperiale in Cina e nel suo tour asiatico, la politica di casa deve essere sembrata cosa assai misera a Donald Trump. Dalle Filippine ha ricominciato la sua personale battaglia via Twitter contro “gli odiatori” e gli “stolti” che hanno messo in piedi “la cosa russa”, l’inchiesta sulle interferenze di Mosca nelle presidenziali Usa. Bersaglio, gli ex capi dell’intelligence Usa James Clapper (Nsa)e John Brennan (Cia) e dell’Fbi James Comey, gente che non si accontenta della parola d’onore di Putin né delle pacche sulle spalle scambiate nei meeting internazionali.
Il viaggio asiatico di Trump finisce così come era cominciato, invischiato nella scia del Russia-gate, il presidente schierato contro l’intelligence nonostante l’asserita fiducia presidenziale nelle agenzie Usa. E si capisce che uno come Brennan, che ha lavorato per repubblicani e democratici, consideri un “pericolo” il fatto che Trump si possa far mettere nel sacco dal presidente russo, tanto da difenderlo contro le evidenze raccolte da parte americana. “Credo che questo dimostri a Putin che Donald Trump può essere giocato dai leader stranieri che fanno appello al suo ego e cercano di far leva sulle sue insicurezze, cosa che è davvero preoccupante dal punto di vista della sicurezza nazionale”, ha detto Brennan.
Putin non sembra essere il solo ad aver capito come far breccia nell’ego ridondante di Trump. Il viaggio asiatico che si sta concludendo ne è una conferma, i fasti cinesi e le attenzioni riservate da Xi Jinping all’ospite hanno spuntato i modi polemici del Trump candidato che ha rinviato ad altra sede – il Vietnam – la tiritera dell’America first. E per quanto The Donald ne possa aver ricavato l’impressione di essere accolto da imperatore, è Xi ad aver giocato questo ruolo.
Gli accordi miliardari firmati con Pechino per ora sono pezzi di carta e non hanno suscitato grande impressione negli Stati Uniti. Difficilmente riusciranno a ridare fiato alla classe media che ha creduto alla promessa di Trump di riportare il lavoro in America. Ma soprattutto la leadership Usa è sembrata contraddittoria e debole. Trump ha insistito per cercare alleati a far argine alla Corea del Nord, ma ha sostenuto una politica d’isolamento e lasciato il campo a Pechino ritirandosi dal Tpp, ribaltando così la politica di Obama che nel mercato trans-pacifico cercava una sponda per arginare la Cina e rafforzare i legami Usa nella regione. Al dunque è toccato a Xi fare il discorso con più visione del futuro: più commerciale che politica, forse, comunque orientata alle sfide tecnologiche e della globalizzazione.
Visioni divergenti, e sia. Ma il Trump entusiasta per l’accesso alla città proibita si è ben guardato dal sollevare la benché minima obiezione sui diritti umani negati (anzi ha chiamato Xi “un uomo molto speciale” la cui gente “deve essere molto orgogliosa di lui”). E nella bolla del suo super-ego si è persino offerto di mediare nella disputa sul Mar cinese meridionale, dove Pechino tenta di imporre la propria sovranità costruendo isole artificiali e inviando pattuglie navali: Obama aveva sfidato le pretese cinesi nella regione, schierandosi con i Paesi rivieraschi che vogliono mantenere la libertà di navigazione nell’area. Trump insomma ha fatto un passo indietro, lasciando altro margine alle ambizioni della Cina e riducendo lo slogan dell’America first a quello che è: uno slogan, appunto.
Flattery, adulazione, una parola che torna nei resoconti dei media sul viaggio asiatico di Trump. Non la prima volta, certo (in Arabia Saudita, dove incassò un contratto miliardario per vendere armi, il ritratto del presidente Usa era stato proiettato sulla facciata dei palazzi, il ciuffo biondo spalmato sui piani più alti). In Giappone il premier Shinzo Abe – andando a colpo sicuro – lo ha elogiato come il suo giocatore favorito di golf, omaggiandolo con un berretto a caratteri d’oro che esalta l’amicizia tra i due Paesi.
In Sud Corea, dove tremano al pensiero delle bombe di Kim Jong-un, Trump è stato presentato all’Assemblea nazionale di Seul come “il leader del mondo”. Ma quello del presidente in carica è un mondo rimpicciolito, dove l’America sembra non riuscire più a trovare il suo posto. E la Casa Bianca resta nel cono d’ombra del Russia-gate.
L’inchiesta finora ha lambito la presidenza senza trovare la classica pistola fumante. Ha confermato però che ci sono state interferenze, che ci sono stati legami tra esponenti della campagna presidenziale e Mosca, che i social sono stati inquinati dalle fake news pilotate dalla Russia. Nell’opinione pubblica cresce il numero di quanti credono che la faccenda sia seria e vada chiarita fino in fondo (il 62% secondo la Cnn), mentre Trump colleziona i peggiori record di popolarità a un anno dall’elezione e c’è chi si chiede quanto il presidente sapesse o sia stato piuttosto l’utile idiota di turno. Con tutti gli indici economici che segnano bel tempo, il 60 per cento degli americani ( Economist/YouGov) crede che il Paese stia andando dalla parte sbagliata. E i repubblicani sperano di riuscire a vendere la loro riforma fiscale per non andare a sbattere alle elezioni di midterm. Ci vorrà qualcosa di più da offrire, che non dare del “basso e grasso” a Kim Jong-un su Twitter.
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