Leggi sballate e ritardi:
anche in questo abbiamo
bisogno dell’Europa
E se per gli attesissimi fondi europei anti-crisi l’Italia avesse davvero bisogno di un solidale tutoraggio? Non un controllo in itinere né un’ingerenza politica ma una bella mano tecnica sì; non una verifica preventiva ma un aiuto per attivazione e realizzazione dei vari progetti – siano per la sanità e per la scuola o per la digitalizzazione e la green economy – ci sarebbe utile, fatta salva una visione del “che fare” da noi pensata, approvata e condivisa in modo largo. I sovranisti pop non si indignino a vuoto: sarebbe utile e, con ogni probabilità indispensabile. Mica una impossibile devoluzione di poteri, bensì una mano amica per un Paese bloccato da troppi lacci e con una fama non usurpata di litigiosità pseudo-politica e diffuse inadeguatezze strutturali (superfetazioni legislative, tonanti decreti lasciati a mezzo guado tra sogno e realtà, giurisdizione lenta in modi obbrobriosi e scoraggianti, infiltrazioni criminali, levatura medio-bassa del ceto politico, traballante meritocrazia nei ranghi burocratici).
Chiedere onestamente e seriamente una mano: sarebbe un passo che ci aiuterebbe a crescere meglio, altro che fingere di offendersi per continuare – male – come prima. Daremmo invece finalmente un esempio di serietà all’Europa.
Fatta la tara ai vari interessi nazionali particolari dei paesi cosiddetti frugali (un’Olanda che offende il concetto stesso di Unione Europea con tassazioni più che di favore ai campioni del Big Tech dovrebbe darsi una calmata), alcuni sospetti da Bruxelles sono più che legittimi. Mentre la nostra Sanità – in maggior parte pubblica… – ha controllato, non senza errori, il tornado Covid assai meglio di altri Paesi europei, dando dimostrazione di alti livelli scientifici e umani, di scatto ed efficienza operativa, in diversi altri casi non ci siamo risparmiati preoccupanti figuracce.
Perché piangeva Teresa Bellanova
Agli inizi di maggio Teresa Bellanova piangeva e non perché “stava premiando i clandestini”, come aveva affermato insensatamente il deputato leghista Claudio Borghi. Il ministro dell’Agricoltura s’immaginava commossa di aver dato una storica e decisiva spallata allo sfruttamento dei braccianti con la sua “fetta” del decreto Rilancio (n. 34 del 2020) dedicata alla emersione dei “manovali” agricoli e dei lavoratori domestici. Basta lavoro nero e sottopagato, si prevedeva che almeno 200.000 tra braccianti e badanti, su una stima di 600.000 lavoratori senza permesso di soggiorno, avrebbero richiesto la regolarizzazione, entrando nel cono di luce della legalità. Ai primi di luglio erano arrivate solo 80.000 richieste, per l’88% colf e badanti, di qui una proroga al 15 di agosto per la chiusura delle pratiche. Un mezzo flop e qui sì che sarebbero servite le lacrime, visto che il decreto era dedicato in primo luogo ai braccianti.
I motivi? Diversi, eccone uno. Già i lavoratori stranieri extra-europei non possono entrare nel nostro Paese con un visto di lavoro e questo, ha spiegato Maurizio Bove, responsabile immigrazione della Cisl milanese, «genera irregolarità, perché la maggior parte di essi entrano nel Paese con un visto per turismo, trovano un impiego ma sono poi costretti a lavorare in nero nonostante il datore di lavoro abbia intenzione di assumerli». Poi ci sono i richiedenti asilo: «Molti di loro sono assunti regolarmente, perché il permesso di soggiorno consente loro di svolgere attività lavorative. Però queste persone, assunte anche a tempo indeterminato, ma non nei settori citati dal decreto (agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura; assistenza alle persone affette da patologie o handicap che ne limitino l’autosufficienza; lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare, ndr), teoricamente dovrebbero licenziarsi per cercare un datore di lavoro nuovo da cui essere assunti e che rientri tra quelli indicati nel “pacchetto” regolarizzazioni». Un assurdo. Perché mai un migrante dovrebbe rinunciare, per regolarizzarsi, a un lavoro con cui stava provando a costruirsi un futuro?
Il triste caso dell’app Immuni
E lasciamo pure stare i tristemente falliti navigator, ma l’app Immuni per il tracciamento dei contatti di chi si ritrova positivo al Covid? I dati DESI, Digital Economy and Society Index, l’indice della Commissione europea che monitora il percorso dei Paesi verso un’economia e una società digitali, ci vedono al venticinquesimo posto in Europa su 28 Stati, facciamo meglio solo di Romania, Grecia e Bulgaria. Lo si tocca con mano. I download dell’app sono sui quattro milioni e non è che analoghe iniziative in Europa facciano faville, qua però abbiamo un assoluto capolavoro di enigmistica come il decreto del ministero dell’Economia e delle Finanze pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale lo scorso 3 giugno, dove si “spiega” che il collegamento tra la notifica dell’esposizione al Covid sul proprio telefonino e l’operatore sanitario che ci deve guidare per inserire i dati, secondo un preciso modello di legge adottato dall’app Immuni, non potrà avvenire, per problemi tecnici legati all’utilizzo del codice di sblocco, prima di 90 giorni dalla pubblicazione del decreto stesso. Il virus si metta in coda e aspetti con pazienza. E qui più che un tutoraggio europeo, servirebbe una gita a Lourdes.
Infine lo Studio nazionale coi test sierologici: hanno aderito 75.000 cittadini, ha appena informato il professor Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità. Il test era previsto per 150.000. Dove si è sbagliato? E soprattutto: abbiamo il diritto di fare gli schizzinosi sui fondi europei e di sdegnarci con chi vuol tenere d’occhio come li usiamo?
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