Legge “truffa”, quando la Dc scoprì il maggioritario
Dopo la vittoria del 18 aprile 1948, la Dc navigava in acque tutt’altro che tranquille. Aveva conosciuto un vivace dibattito interno già al congresso di Venezia (giugno 1949). La richiesta di Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira di aprire un “terzo tempo sociale” non poteva essere troppo a lungo congelata. Vedono così la luce la revisione dei patti agrari, la Cassa per il Mezzogiorno, i piani di edilizia popolare patrocinati da Amintore Fanfani. Provvedimenti che da un lato incontrano vivaci resistenze nella destra liberale, dall’altro lato coesistono con la linea monetarista di Giuseppe Pella invisa alle componenti riformiste del governo. Alcide De Gasperi deve quindi fare i conti con un partito inquieto e con alleati divisi, peraltro in una fase in cui le tensioni tra i due blocchi sono inasprite dallo spettro del conflitto coreano.
È in questo clima che si colloca il disegno di “democrazia protetta” di De Gasperi. Secondo la sua celebre metafora dell’autobus, lo Stato non doveva più essere solo il controllore che si occupa unicamente di timbrare i biglietti dei passeggeri, ma doveva decidere chi poteva e chi non poteva salirvi. Nella traduzione di Luigi Sturzo : “Altro è il rispetto dell’avversario, nell’osservanza dei diritti e dei doveri, altro è aprire la porta di casa a chi non ha diritto di entrarvi, per una cortesia che non sarà mai contraccambiata; peggio, col dubbio, anzi la certezza, che si tratta di un nemico dello stato democratico” (“La Via”, 15 luglio 1950). La seconda metà della legislatura, quindi, culmina nella legge maggioritaria volta a blindare la formula centrista.
Passata agli annali col nome di “legge truffa” diventa teatro di una “patria battaglia” che appartiene ormai alle mitologie della storia repubblicana. Il cammino della riforma elettorale inizia alla vigilia del rinnovo dei consigli comunali e provinciali. Nel febbraio 1951 il ministro degli Interni Mario Scelba propone di introdurre un premio -pari a due terzi dei seggi- a favore della lista che ottenga la maggioranza relativa, ferma restando la ripartizione proporzionale dei seggi residui tra le altre liste concorrenti. Le urne vengono sdoppiate: nella primavera del 1951 votano le regioni del Nord, l’anno seguente quelle meridionali. Il consenso raccolto da socialcomunisti, monarchici e missini supera quello dei democristiani e repubblicani al governo (a cui non partecipavano il Psdi e il Pli).
Il risultato è clamoroso e allarma ambasciata americana e ambienti vaticani, i quali rimproverano al presidente del Consiglio il veto posto all’auspicato accordo con la destra monarchica di Achille Lauro. “Quando il turco è alle porte di Costantinopoli -chiosa la rivista dei gesuiti “Civiltà Cattolica”- non giovano le schermaglie bizantine […] Oggi l’invasore non sta solo alle porte, ma ha già i suoi fedeli e numerosi emissari dentro la città, in cui agevolmente scorrazza e si prepara a dar la scalata alla vera pace, alla nostra libertà, a quanto abbiamo di più caro e sacro sulla terra” (n.103,1952). Ma è proprio il mancato successo, come ricorderà Giulio Andreotti (“De Gasperi e il suo tempo”, Mondadori, 1974), che spinge la Dc a proporre l’estensione del maggioritario alle elezioni politiche,rafforzato con un rigido sistema di apparentamento tra i partiti di centro vincolante a livello nazionale.
L’abbandono del proporzionale viene deliberato nel Consiglio nazionale di Anzio (21-24 giugno 1952), pur con qualche tentennamento fra i “dossettiani senza Dossetti” (l’esperienza del gruppo di “Cronache Sociali” era di fatto terminata sei mesi prima). I mentori della svolta sono De Gasperi, Guido Gonella e Paolo Emilio Taviani, che ne rivendica addirittura la paternità. Contrario è invece Giovanni Gronchi, che critica “il ricorso ad artifici legislativi che violentano le norme e lo spirito della Costituzione” (“Una politica sociale. Scritti e discorsi scelti 1948-1956”, il Mulino, 1962). Anche Sturzo, che del resto non aveva mai nascosto le sue simpatie per il sistema uninominale, condanna “quel premio di maggioranza, che il fascismo volle come suo primo atto elettorale a cui fece seguito la soppressione, prima parziale poi completa, del regime rappresentativo” (“Il Popolo”, 29 giugno 1952). Ribadisce pertanto la sua ostilità verso ogni possibile commistione con la “legge Acerbo” del 1923 ( due terzi dei seggi col 25 per cento dei suffragi), cui si era opposto con grande fermezza fino a mettere in gioco l’unità del Partito popolare.
Dopo la riunione di Anzio, socialdemocratici, repubblicani e liberali avviano con la Dc una trattativa serrata che verte su un punto cruciale: come ripartire il premio di maggioranza tra le forze politiche collegate. Psdi, Pri e Pli subordinano il proprio appoggio alla certezza di non essere penalizzati nel gioco della distribuzione dei seggi. In agosto, durante la vacanza trentina, De Gasperi incontra i loro rappresentanti per un ultimo sondaggio e poi pronuncia un importante discorso a Predappio, dove spicca il suo ruolo di vero regista dell’operazione: ” Ci sono […] due forze periferiche, una a destra e una a sinistra, che sono esse stesse incapaci di accordarsi sui principi di governo. [ …] Sommate insieme queste forze sono però capaci di impedire che si faccia un governo. [ …] Questa è la situazione di fatto: la somma di tali forze negative ci costringe a pensare alla riforma elettorale [ …]”.
Il 18 ottobre il Consiglio dei ministri approva il progetto di legge. La ripartizione dei seggi tra maggioranza e minoranza viene fissata nelle quote di 380 contro 209, più un seggio spettante al collegio valdostano (in altri termini, il 65 per cento dei seggi viene assegnato alla coalizione che raggiunga il 50 per cento più uno dei voti validi espressi). Il 15 novembre la Dc e le tre formazioni laiche firmano l’accordo di collegamento. Il 7 dicembre inizia alla Camera l’iter parlamentare. Il dibattito è al calor bianco. Giorgio Almirante si scaglia contro il meccanismo elettorale congegnato per discriminare la destra. Palmiro Togliatti e Francesco De Martino cercano di dimostrare come la fede proporzionalista sia il cemento della nazione voluto dai costituenti. Aldo Moro, nell’intervento di rigetto delle eccezioni sollevate, addebita la necessità della riforma elettorale alle opposizioni, le quali “hanno interrotto il dialogo democratico e introdotto un significato di democrazia che sostanzialmente contrasta con un autentico ideale democratico”.
Il 18 gennaio 1953 le nuove regole elettorali vengono votate a Montecitorio, mentre nelle strade di Roma si susseguono gli scontri tra reparti della Celere e manifestanti. De Gasperi, che è presente in aula, ribadisce che è dovere imprescindibile del governo assicurare l’autonomia del Parlamento da ogni sorta di pressione esterna. La tensione sale in tutte le piazze della penisola. A Livorno, un ordine del giorno approvato dagli operai comunisti e socialisti della Moto-Fides dichiarano di essere pronti a battersi “per la salvezza della verità, contro ogni tentativo di soffocazione delle libertà costituzionali e in particolare contro la legge elettorale truffaldina”. Si respira nuovamente un’aria da 18 aprile 1948. Nei manifesti della Dc compaiono due loschi figuri: un fascista con manganello e pugnale e un comunista con il basco con la stella rossa. In quelli della sinistra la Democrazia cristiana viene bollata come il” partito della greppia”. Nei quadri murali del Msi troneggia De Gasperi in divisa da carabiniere.
Fin da quando si profila l’accantonamento del proporzionale, quotidiani e riviste della sinistra si impegnano in un massiccio battage propagandistico teso a far diventare senso comune il carattere liberticida della “legge truffa” in gestazione. Dal canto suo, il variegato mondo della stampa di opinione e degli ambienti moderati difende strenuamente quella che che viene giudicata come una specie di “ultima sponda” per la democrazia italiana. Fuori dal coro “Il Mondo”, che già nel gennaio 1952 si era speso per favorire il rilancio di un’area liberaldemocratica trasversale al sistema dei partiti. Dopo aver stigmatizzato la condotta di Psdi, Pri e Pli divenuti “servi dei democristi”, Gaetano Salvemini sulle sue colonne indica per il futuro la necessità di creare una “terza forza”, riunificando lo schieramento laico in una “confederazione dei gruppi di centro-sinistra e sinistra”. L’appello, nonostante l’adesione di prestigiosi intellettuali, avrà scarsa fortuna. Tuttavia, dalle fila liberali, socialdemocratiche e repubblicane nel frattempo erano uscite personalità di rilievo come Epicarmo Corbino, Piero Calamandrei e Ferruccio Parri. Gli ultimi due -insieme a Antonio Greppi- danno vita al movimento di Unità popolare, in cui si schierano quanti cercavano gli spazi per una “terza via”. Tra questi: Arturo Carlo Jemolo, Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio, Carlo Levi, Leo Valiani, Mario Soldati, Bruno Zevi.
Lunedì 8 giugno 1953: si chiudono i seggi elettorali e cominciano le operazioni di scrutinio. Una settimana dopo vengono ufficializzati i risultati definitivi. L’affluenza alle urne è stata del 93,8 per cento. Il quorum non scatta per cinquantasettemila voti, a fronte di un milione e trecentomila schede bianche, nulle o contestate. Negli ambienti vicini al governo il Pci viene accusato di brogli e si invoca un riconteggio delle schede. In un incontro con l’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce, il leader democristiano individuerà invece nella competizione sfrenata tra i candidati di uno stesso partito (il famigerato “assalto alle preferenze”) la causa principale dell’elevato numero di voti invalidati. Nonostante la sconfitta, De Gasperi era convinto che la politica centrista non avesse alternative. Ma restava sul tappeto il nodo del fallimento degli alleati laici, la vera spina nel fianco della sua strategia. L’abile gioco di Togliatti, lamenterà Luigi Salvatorelli, aveva minato la parte debole della coalizione. Il 25 giugno 1953 si inaugura la seconda legislatura repubblicana. Viene subito annunciato un progetto di legge, con in calce la firma di Pietro Nenni: “Abrogazione della legge 31 marzo 1953, n.148”. Cominciava una nuova fase della politica italiana.
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