L’egemonia leghista, il crollo M5S. Segnali dal Pd ma la strada è in salita
Per una volta l’Italia reale somiglia davvero a quella percepita. C’è un partito, la Lega di Salvini, che da almeno un anno esercita la sua egemonia nel governo e nel Paese e che ora raccoglie i frutti nelle urne europee superando la quota record del 34 per cento. Il suo alleato 5 Stelle, troppo a lungo gregario e subalterno, perde quasi la metà del suo elettorato e retrocede (rovinosamente) dal primo al terzo posto ben sotto il 20 per cento: è il ribaltamento perfetto dell’esito del 4 marzo. Lo spazio a sinistra resta presidiato dal Pd, dato fino a ieri per moribondo: la sua crescita al 22,7 per cento è ancora insufficiente a realizzare un’alternativa vincente, ma è comunque il minimo sindacale per iniziare a provarci. E comunque, considerato che fino a qualche tempo fa c’era chi disegnava scenari futuri da incubo, con leghisti e grillini a occupare “per i prossimi 20 anni” tutto lo spazio a destra e a sinistra (!), non è poco.
La vera partita, comunque, comincia ora. Nel governo e nell’opposizione. Salvini continua ad assicurare che non cambierà niente, e per certi versi c’è da credergli. Non saranno forse gli equlibri mutati, anzi ribaltati, nella maggioranza di governo a far vacillare l’esecutivo giallo-verde o addirittura a dargli il colpo di grazia. Il vero problema è che il tempo dei rinvii è finito. Dal 27 maggio l’alibi del voto non esiste più. A cominciare dalla prossima legge di bilancio. I margini per fare altro deficit sono nulli: a Bruxelles, pur tra non pochi scossoni, i partiti europeisti restano nettamente maggioritari e la prossima Commissione Ue non si discosterà granché da quella uscente. Del resto al di là degli slogan non ci credevano neppure Salvini e Di Maio. Saranno ora disposti a varare una manovra di 40-50 miliardi per disattivare l’aumento dell’Iva e magari per dare avvio a quella flat tax rivendicata dai vincitori leghisti? E quali ulteriori compromessi possono essere raggiunti per altre cambiali in scadenza, come la Tav?
Sul piano politico si aggiunge la questione della tenuta dei 5 Stelle e della sua leadership, sempre più debole. Nato e cresciuto a dismisura come forza anti-politica di protesta, il partito di Grillo ha cambiato per molti aspetti la sua natura, finendo per sposare le posizioni xenofobe e anti-europee dell’alleato leghista, ma senza trarne alcun vantaggio. Tutt’altro. La discesa fino al 17 per cento può far esplodere tutto. E se ora Di Maio finirà “sotto processo”, non è messo molto meglio il premier Conte: prima Salvini era considerato il capo del governo di fatto, presto lo potrebbe diventare anche di diritto, con la giubilazione definitiva dell’”avvocato del popolo”.
Infine il centrosinistra. La prima prova della nuova leadership di Zingaretti è tutto sommato positiva: si è invertita la tendenza che alle elezioni politiche del 4 marzo aveva raggiunto il punto più basso. Ma la ripresa è ancora debole. E passa per altre sconfitte sul territorio, come quella dolorosa che si profila alla Regione Piemonte. Anche per i Democratici è arrivato il tempo delle scelte: non basta aprirsi e mostrarsi più inclusivi rispetto alla stagione precedente, servono programmi e parole d’ordine convincenti. Il punto è che attorno al Pd, nel centrosinistra, sembra esserci il deserto. La strada resta in salita.
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