Le tante (troppe) maschere di Giuseppe Conte
Si ricama molto nei giornali sulla compiuta metamorfosi di Conte che, da capo unto dalla rete, oggi riceve la fiducia dell’aula esortando ad un “uso responsabile del social network”. Da presidente anonimo, che obbediva sempre servizievole, secondo il ruolo ancillare che i suoi vice gli assegnavano d’imperio, si propone al pubblico come statista, qualcuno dice, di livello addirittura europeo, internazionale. Sarà, ma anche in politica dal nulla non nasce così facilmente una cosa nuova. E, con tutti gli sforzi di una teologia politica edificante, da uno che “per contratto” si trova ai vertici per caso è arduo che possa scaturire uno statista che si afferma per riconosciuta virtù. Un Conte qualsiasi non diventa mai Moro.
Il cerchio di Bonafede
Scelto da un campione casuale di personaggi vicini al cerchio fiorentino di Bonafede, per dire della sofisticata fucina di statisti che si ritrova in mano le sorti della terza repubblica, Conte ha ricevuto l’unzione delle sacre stanze e il gradimento delle più profane ragionerie degli affari. Per sdebitarsi della grazia ricevuta, proprio l’Elevato, riconosciuto per volontà sovrana del regista del Vaffa, si impegna nella crociata purista per «adoperare un lessico più consono e rispettoso». Qualcuno parla di due Conte (che abbia ragione il presidente dai capelli arancione a chiamarlo “Giuseppi”?). Il primo, ribelle a comando, che sbagliando la citazione di Puskin si proclama anti-sistema, soldato populista che in nome del basso intende abbattere il regime è stato soppiantato dal secondo più rassicurante e civettuolo esponente della “casta”. Con l’unzione purificatrice dei colli, legge in aula fogli su fogli dilungandosi in minuziose (e soporifere) descrizioni dell’universo mondo (giura però che «non è una mera elencazione di proposte eterogenee»).
Manca un riconoscibile profilo
Il ruolo e i referenti sono mutati, ma l’avvocato resta immutabile proprio grazie all’infinità di maschere che è disposto a esibire. Il vero volto di Conte è l’assenza di un riconoscibile profilo. E questo anonimo tratto lo rende adattabile verso l’alto e verso il basso, un nulla che si perpetua restando sempre l’assoluto nulla. Per questo vuoto ontologico che connota il suo povero ethos politico non si scompone dinanzi agli innocui scogli del principio di contraddizione. Può passare così dall’esibizione demoniaca dello scalpo del migrante, grazie al rivendicato decreto Salvini, alla redenzione istantanea che lo autorizza a riciclarsi come profeta che vende agli smemorati nevrotici dell’universo digitale la promessa angelica di un nuovo umanesimo utile per «affrontare più efficacemente i temi dell’integrazione».
Elenchi noiosi di cose da fare
Tra l’avvocato del popolo che impiega simbologie ribelli contro il palazzo e il novello statista cosmico-storico segnalato per le sue qualità diplomatiche dai potenti di ogni dove non c’è vera discontinuità. Entrambe le sue stagioni di governo appartengono agli episodi delle fabbriche di narrazioni, alle stanche compravendite di finzioni caratteristiche della politica senza politica, alle giravolte continue dei partiti che sono ridotti a non-partiti. I suoi discorsi non hanno uno scatto, una trovata, insomma una traccia di pensiero. Solo elenchi noiosi di cose da fare e riaffermazione scontata di principi generici che non pongono mai l’alternativa prendere o lasciare. Paragonata alle volgari intemperanze estive del capitano ora privo di gradi o agli spropositi delle costruzioni verbali dei grillini che salutavano il presidente “Ping”, l’oratoria mite del fu avvocato del popolo si carica di simboli rassicuranti che molti interpretano come annuncio di una bella politica. Eppure, qualcosa non quadra e nella variazione dei copioni e degli alleati, anche in questa vicenda “c’è un tono delle parole e del discorso che ti tradisce per quello che sei. Puoi raccontarle come tue le storielle di tutti, ma la voce che adoperi è sempre la stessa. E la voce di chi scrive è lo stile, le parole che sceglie” (Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, 1990, p. 228).
L’incognita della piazza
Le parole e la voce del bis-Conte, che silurato via mare dal Papeete opera una inversione ad U e viene accolto dallo “stupefatto sì” di Monti, ma non lascia Palazzo Chigi anzi raddoppia, sono invarianti segnalazioni di un che di forzato, di eccessivo, di suoni verbali che scorrono senza significato. Che con questo nulla accasato al potere, con questo significante vuoto disposto, con lo stesso abito ‘e la identica voce, a sposare la causa di qualsiasi significato, si possa sedare la rabbia della piazza che si sente espropriata è una assoluta incognita. Il nero in apparenza è stato rimosso con la manovra d’agosto (“Questo governo non è nato di notte, è trasparente, si presenta a voi in modo lineare”) che incassa qualche “stupefatto sì” delle non più odiate nomenclature tecnocratiche. E però il sovranismo difficilmente potrà essere sconfitto con le parole dormienti del bis-Conte raddoppiato, maestro insuperabile nell’arte della dimenticanza.
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