Le elezioni in Spagna?
Sapete chi le ha perse?
Matteo Salvini
Sapete chi ha perso le elezioni in Spagna? Matteo Salvini. Quest’affermazione può apparire bizzarra, ma non è un’ossessione condizionata dallo spropositato ingombro mediatico del vicepremier italiano e ministro di tutti i ministeri, bensì il frutto di un ragionamento politico. Nelle urne spagnole si è consumata la sconfitta di un’ipotesi politica e di una speranza che albergava (forse alberga ancora, ma pesantemente ridimensionata) in molti cuori di quella destra sovranista europea di cui proprio Salvini è diventato la bandiera.
Sono successe, infatti, tre cose: la prima è l’avanzata dei socialisti. Non vincevano da molti anni e fino a qualche mese fa erano dati se non per morti almeno in fase preagonica come i loro compagni in altri paesi d’Europa. Si vedrà se e come riusciranno ad assicurare il governo al paese, ma intanto hanno dato una grossa delusione a tutti quelli che speravano in un collasso numerico del gruppo socialista nel parlamento europeo che uscirà dal voto di fine maggio. Considerando che le tragicomiche vicende della Brexit alla fine potrebbero portare al voto anche i britannici e che il Labour pare godere in questi tempi di ottima salute, c’è da prevedere che il gruppo Socialisti & democratici soffrirà sì delle prevedibili defaillances di francesi e italiani, ma non subirà un tracollo. Il “radicale spostamento a destra” dell’assemblea, che nei piani salvineschi avrebbe dovuto provocare il sovvertimento delle istituzioni di Bruxelles verso il sovranismo non sarà, alla fine, per niente radicale.
La seconda cosa è che Vox, il movimento populista-sovranista che a Madrid si era ammantato dei panni ricuciti di mai morte nostalgie franchiste è rimasto molto al di sotto delle aspettative proprie e dei timori altrui. Entra in Parlamento, ma non è un ingresso trionfale. Non quanto, almeno, aveva sperato (comprensibilmente) Salvini e come aveva profetizzato (incomprensibilmente) una pletora di commentatori di fede democratica inclini, specie qui da noi, al masochismo e al luogo comune che vuole che le destre vincano dappertutto. Quelli che, insomma, erano sicuri che il movimento di Santiago Abascal avrebbe bissato il successo, quello sì, incassato nelle recenti elezioni in Andalusia.
In Spagna invece si è configurato lo scenario che caratterizza, ormai, quasi tutti i paesi europei con l’eccezione dell’Italia e dei paesi del gruppo di Visegrád: c’è un’ondata populista, che si nutre di nazionalismo nella versione alla moda del sovranismo, di antieuropeismo, di xenofobia, di revanchismo rispetto alle conquiste in fatto di diritti civili e spesso di aperto razzismo che si è gonfiata in modo preoccupante negli ultimi anni ma non abbastanza da travolgere, e neppure da mettere seriamente in pericolo, le impalcature costituzionali degli stati e il consenso della grande maggioranza dei cittadini alle istituzioni democratiche. La destra estrema è molto più forte che in passato ma è complessivamente isolata, anche se proprio in Spagna si è assistito al tentativo dei moderati del Partido Popular di rimetterla in gioco, prefigurando una union sacrée di tutte le destre per riconquistare i palazzi del potere.
Ecco, dietro al fallimento di questa operazione c’è il terzo fatto significativo, forse più difficile da vedere ma anche più importante, che si è trovato dentro le urne spagnole. Diversamente da quel che è accaduto in altri grandi paesi dell’Unione, come in Francia o in Germania, l’establishment conservatore qui ha ritenuto che fosse possibile abbassare l’argine democratico verso l’estrema destra. Un’operazione che era resa probabilmente più facile che altrove per il fatto che mancava già all’interno dei popolari un argine democratico interno nei confronti delle suggestioni autoritarie, come s’era visto chiaramente nelle durezze eccessive (e controproducenti) opposte alle pulsioni indipendentiste catalane.
È proprio l’insuccesso di questa operazione politica quel che deve preoccupare di più l’esercito sovranista guidato dal capitano di casa nostra. Salvini in queste ore si sta preparando a un incontro al quale tiene molto e al quale affida(va) molte speranze. Venerdì sarà a Budapest per discutere di strategie con Viktor Orbán che considera se non il suo maestro almeno un precursore. Il capo leghista arriva all’incontro dopo aver sperimentato l’illusorietà dei suoi antichi propositi di unificare il fronte dei vari sovranisti al potere e no in Europa. Non solo non ci sarà la mitica Lega europea delle Leghe vagheggiata qualche mese fa e neppure il Rassemblement européen lanciato pomposamente insieme con Marine Le Pen, ma è abbastanza probabile che i vari partiti sovranisti finiranno per dividersi in almeno due gruppi, se non addirittura in tre se le vicende della Brexit faranno restare nel parlamento i conservatori britannici uniti in gruppo, nella legislazione morente, con i nazionalisti polacchi del PiS di Jarosław Kaczyński, che qualche mese fa mandò in bianco l’italiano con un memorabile sgarbo.
Preso atto del fallimento, Salvini avrebbe cambiato strategia. L’obiettivo sarebbe, ora, di tentare, tramite, il “grande amico Viktor”, l’aggancio al PPE nel quale l’ungherese con il suo partito, il Fidesz, continua tranquillamente ad albergare nonostante l’ostilità manifesta di buona parte dei deputati popolari, che mesi fa votarono a larga maggioranza persino una risoluzione di condanna della sua politica illiberale. L’amico Viktor dovrebbe fare da trait d’union per un’alleanza tra i popolari e i sovranisti su alcuni dossier sui quali le posizioni potrebbero convergere: l’immigrazione, la difesa della famiglia tradizionale, l’opposizione all’affermazione di diritti civili in materia sessuale ed etica e forse – perché no? – anche una qualche spartizione di posti nelle istituzioni e negli uffici di Bruxelles.
Non si tratta di un’ipotesi fantapolitica. Che nel PPE esistano tentazioni alle intese con l’estrema destra non solo è noto, ma è stato addirittura reso pubblico, prima che cominciasse la campagna elettorale, da Manfred Weber, attuale candidato del PPE per la presidenza della Commissione e intanto presidente del gruppo parlamentare. D’altronde, la maggioranza degli eurodeputati popolari si sono mostrati tutt’altro che draconiani con l’ungherese votando, invece che l’espulsione che era stata chiesta da diversi partiti più vicini alla tradizione democratico-cristiana un “periodo di prova” durante il quale Orbán dovrebbe dimostrare il suo ravvedimento. Figuriamoci.
Ma se il disegno di Salvini è questo, e trova qualche sponda dentro il partito popolare europeo, il risultato elettorale spagnolo è arrivato come una mattonata in testa. L’alleanza della destra moderata con la destra sovranista non funziona perché non ha i voti. È accaduto in Spagna e potrebbe accadere in Europa. Anzi, stando ai sondaggi che circolano attualmente, sarebbe proprio così: un’alleanza esclusiva tra i popolari e le varie anime e animelle del sovranismo non avrebbe i numeri per formare una maggioranza. Se l’italiano ci sperava, e dalle dichiarazioni fatte a ripetizione prima del voto si capiva perfettamente che ci sperava, ha dovuto incassare una grossa delusione. Le elezioni in Spagna le ha perse anche lui.
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