Le borgate di Ultimo e il grido poetico che sale dalla fabbrica
Potrebbe sembrare un’iperbole la recente dichiarazione di Goffredo Bettini sul cantante Ultimo che, provenendo dalle borgate, sarebbe appunto in grado di restituirle nei propri testi e che con quelle stesse canzoni muove decine di migliaia di persone. Un percorso simile si potrebbe ipotizzare per chi oggi fa musica rap o trap, sono loro a descrivere minuziosamente la vita delle comunità marginali, di chi vuole costruire futuri migliori, di chi “semplicemente” cerca di ribadire i propri diritti.

La connessione sentimentale di Gramsci
Ascoltare (ma anche comprendere e restituire) tutto questo ha un padre nobile, ovvero la connessione sentimentale che Antonio Gramsci definisce nei propri Quaderni del Carcere: «Non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta, o un sacerdozio».
La mancanza dunque di questo rapporto simbiotico crea un distacco verso qualsiasi galassia di popolo, sia che si immagini un orientamento intellettuale, sia che ci si rapporti a uno culturale. Ma l’assenza di connessione non va solo in una direzione, non riguarda un mancato ascolto delle migliori anime culturali del nostro paese, ma contemporaneamente anche la proposta di coloro che nel grande mare intellettuale occupano un ruolo che non compete loro. E in questo senso una delle pagine più dure e oneste si trova nella prefazione di “Dieci Inverni” di Franco Fortini: «Quelli che ancora ieri ci facevano la lezione […] per spiegarci che il vecchio sogno degli intellettuali di adeguare la realtà al mondo delle idee è, appunto, un sogno, […] credono davvero che non lo sapessimo? E con che armi combattono costoro? Non è forse a colpi di idee? Codesti specializzati nel processo agli intellettuali, da chi hanno ricevuto il loro mandato? Che cosa sono? Operai metallurgici? Lavoratori edili? […] Da quanti anni accademici hanno assistenti alle loro cattedre? La smettano una buona volta di parlare in nome dell’universale e della classe operaia, come se […] la pubblica manifestazione li detergesse, acqua battesimale, dal meconio di classe che li lordava all’uscir dall’utero della loro piccola borghesia».
Esistono anche in poesia casi di autori che per il loro sguardo e vissuto andrebbero maggiormente ascoltati o recuperati. Come i poeti operai che hanno cantato la fatica e il disamore delle fabbriche. Luigi di Ruscio, ad esempio, una vita trascorsa da emigrante, il caso di Ivano Ferrari che con “Macello” ha probabilmente cambiato le prospettive della recente poesia e del modo di raccontare il lavoro. Non possiamo dimenticare Fabio Franzin che della fabbrica ha raccolto ogni aspetto, lavoro ma anche disoccupazione, in uno scenario, il Triveneto, pronto a esportare le proprie fabbriche a cavallo degli anni Duemila e costringere i lavoratori alla disoccupazione e alla miseria.
Dietro i trucioli di Matteo Rusconi
In un passato più recente troviamo il caso del lodigiano Matteo Rusconi, che con “Trucioli” ha saputo dare nuova vita al racconto della fabbrica, un luogo lavorativo dove oltre al tema della sicurezza e dell’alienazione, che rimanda al capolavoro cinematografico di Elio Petri “La classe operaia va in paradiso”, evidenzia un costante stato di inumanità interpretato dalla figura cardine del padrone-manager che comanda dall’alto e spreme ogni sottoposto senza alcun tipo di sentimento, mosso esclusivamente dall’impellenza economica.
Nella moderna fabbrica raccontata da Rusconi chi lavora diventa esclusivamente parte dell’ingranaggio, senza alcuna distinzione tra lo strumento mosso e chi lo dirige, una fusione asettica e senza il minimo sentimento o cura, “complicato” da una sorta di schermo simile a quello dei moderni sistemi di comunicazione che depaupera ogni tipo di vicinanza umana. Ecco, forse è questo tipo di cultura (letteratura o qualsiasi altra forma d’arte) che dovrebbe essere ascoltata ma soprattutto accolta, da una popolazione più ampia e da chi ci dovrebbe rappresentare. L’alternativa sarà una sorta di astensione, di rinuncia che un’identità differente non potrà mai colmare senza la consapevolezza mantenuta ad esempio da Vittorio Sereni in “Una visita in fabbrica”. Ma è giusto che siano testi come quello di Matteo Rusconi – qui sotto – a parlare, e ben più di coloro che dopo avere scritto torneranno nelle loro comode case perché (sempre per dirla alla Sereni): “La parte migliore? Non esiste”.
Mi porto a casa il rumore della fabbrica
come un reduce porta dentro di sé
il ricordo della guerra.
Nella doccia ritrovo
lo stridere del metallo
il battere del martello
e tra i capelli ho sparsi i trucioli di un cristo di ferro.
Il tempo ciclo è importante più dell’anima,
la velocità è tutto
gli avanzamenti sono tutto
e il mio invecchiare è il niente,
io sono solo un meccanismo sostituibile.
Mi porto a casa l’odore della fabbrica
come un cane che ritorna da un tuffo nella fogna
e sul limitare penso spesso
al tempo perso là dentro
alla poesia di Prévert nel mio armadietto
e al sole che brucia le spalle
mentre alla mia pelle ci ha già pensato il solvente.
Matteo Rusconi
Trucioli
Aut Aut Edizioni, 2021.
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