Le armi all’Egitto
Dimenticare Regeni
e l’onore dell’Italia

Se c’è una cosa su cui tutti i governi italiani (e non solo) appaiono spessissimo concordi, è questa: bisogna vendere in giro per il mondo armi da guerra piccole, medie e grandi, a man bassa. Senza preoccuparsi di verificare se i Paesi acquirenti abbiano qualche vaga simpatia per la democrazia, per i diritti umani o per il principio enunciato dalla Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Risultato: alla cassa del nostro supermarket si è appena ripresentato l‘Egitto, tra i Paesi più affezionati al Made in Italy in questo campo (minato); infatti già nel 2019 l’;industria bellica tricolore lo ha avuto tra i migliori clienti, con un giro d’affari di 871 milioni di euro.

Quel dato del 2019 è niente, viste le prospettive: l’Italia, attraverso il suo premier, ha appena fatto capire all’Egitto che gli venderà presto due fregate Fremm, le navi da guerra più moderne della nostra Marina militare. La commessa vale 1 miliardo e, secondo Il Fatto Quotidiano, è parte di un accordo assai più grande: la vendita da parte italiana di altre 4 fregate e 20 pattugliatori d’altura (di Fincantieri), 24 caccia, 20 jet transonici Alenia Aermacchi M-346 Master da addestramento (di Leonardo), più un satellite da osservazione: per un valore tra 9 e 11 miliardi. Il via libera per le due Fremm è arrivato dopo la recente telefonata tra il premier Giuseppe Conte e il presidente/monarca egiziano Abdel Fattah Al-Sisi. La decisione è stata subito condivisa con i vertici di Fincantieri: azienda pubblica italiana del settore navale (dalle navi da crociera a quelle, appunto, militari), è il quarto complesso cantieristico planetario (oltre 19.000 dipendenti nel mondo; in Italia sono 8.600, più quasi 50.000 nell’indotto). Un affare? Può darsi. Tuttavia la scelta di avere tra i clienti più coccolati Abdel Fattah Al-Sisi (al potere dal 2013 dopo un golpe militare anti-islamista gradito a tutti, dagli Usa, all’UE alla Russia) apre una serie di questioni.

Prima questione – Il nostro Paese aspetta da anni che l’Egitto gli comunichi la verità su Giulio Regeni. È il ricercatore universitario italiano rapito al Cairo nell’inverno del 2016, quando aveva 28 anni; poi torturato e ucciso da uomini dei servizi di sicurezza, perché sospettato di avere rapporti con gli oppositori democratici, che sono regolarmente incarcerati e massacrati. Malgrado le promesse, le autorità egiziane non hanno mai fornito elementi utili per individuare assassini e mandanti. Così come nulla si sa del destino di Patrick Zaki, lo studente egiziano (cristiano copto) dell’Università di Bologna arrestato il 7 febbraio scorso, al suo rientro in Egitto, per il suo lavoro in favore dei diritti umani e, da allora, murato in galera. Anche in questo caso, le rimostranze ufficiose e ufficiali da parte nostra sono state ignorate. Dopo l’annuncio della vendita delle fregate, la famiglia di Regeni ha giustamente gridato allo scandalo e al tradimento degli impegni presi dal governo italiano. Un dolore enorme, giusto, condivisibile e comprensibile. Tra l’altro, Conte ha garantito di aver telefonato al suo collega del Cairo chiedendo anche, ripetutamente, la “collaborazione giudiziaria nel caso Giulio Regeni“. Eppure il nome del ragazzo non si legge mai nel comunicato ufficiale che la presidenza egiziana ha diffuso dopo il colloquio.

La guerra in Libia

Seconda questione – Quelle navi italiane e tutto il resto dell’arsenale sono destinate all’Egitto, uno dei burattinai della guerra libica, sospettato (per usare un eufemismo…) di violare l’embargo nella vendita di armi in Libia, “imposto” dall’Onu. Non solo: sul fronte libico, il Cairo sostiene, con Mosca, le milizie del generale Khalifa Haftar, contro il governo di Fayez Al Sarraj, riconosciuto dalla comunità internazionale e in particolare dall’Italia. Guarda caso, si è appena appreso che l’Egitto comprerà anche un tot di caccia russi Sukhoi Su-35, tanto per non scontentare i russi. Non è questo il contesto per dibattere sulle qualità e sugli interessi delle tifoserie pro Haftar o Al Sarraj; però il fatto che l’Italia stia armando generosamente un Paese che svolge in Libia, di fronte alla nostre coste, una politica estera opposta e concorrente si presta a molte riflessioni.

Terza questione – Una legge di trent’anni fa, la 185 del 1990, vieta che l’Italia venda armi a Paesi in cui appaiono evidenti le violazioni delle convenzioni internazionali sui diritti umani o dove sia in vigore un embargo nella vendita di armamenti deciso dalle Nazioni Unite (e pure dall’UE). Anche una serie di scelte targate Unione Europea e il trattato internazionale sul commercio delle armi (Att) rendono, in teoria, poco consigliabile la vendita di navi da guerra, per giunta molto sofisticate, a un Paese come l’Egitto. Eppure nulla si ferma, perché il business degli armamenti a quanto pare “giustifica” le amnesie nei confronti di qualsiasi normativa e accordo internazionale.

Le reazioni politiche

Le reazioni politiche? Il partito di Leu – cui fa riferimento Erasmo Palazzotto, presidente della Commissione d’inchiesta sul “caso Regeni” – è contrario alla vendita delle fregate; infatti chiede che il premier vada a riferire ai commissari. Vari parlamentari europei e nazionali del Pd – da Giuliano Pisapia e Laura Boldrini – hanno criticato l’intesa con l’Egitto, sia a causa del “caso Regeni”, sia per questioni di politica internazionale. Mentre il sottosegretario all’Interno Vito Crimi, capo politico a interim del M5s, intervistato da Peter Gomez, l’altra sera ha difeso il business: “Non vendere le fregate all’Egitto non avrebbe portato nessun valore aggiunto nel percorso per raggiungere la verità sulla morte di Giulio Regeni…Abbiamo la possibilità di vendere queste navi, possibilità che avrebbero anche altri Paesi. È una manovra di tipo economico”. Contraria invece l’“ala sinistra” dei pentastellati (quella che fa riferimento al presidente della Camera Roberto Fico), che chiede “quanto prima un ripensamento”. Proprio ieri, dopo le prime reazioni alla notizia, il ministro grillino degli Esteri, Luigi Di Maio, alla Camera ha dato uno alla botte, dicendo che su Regeni viene chiesta incessantemente la verità, però l’Egitto resta “un interlocutore fondamentale”; comunque la procedura di autorizzazione per quel che riguarda le fregate, “è tutt’ora in corso e, “oltre al vaglio di natura tecnico-giuridica, il governo ha ovviamente ritenuto di svolgere una valutazione politica“. Non si hanno per ora notizie di reazioni da parte del centrodestra; rimane il ricordo del leghista Matteo Salvini, che due anni fa – quando era vicepremier e ministro dell’Interno – disse: “Comprendo bene la richiesta di giustizia della famiglia di Giulio Regeni. Ma per l’Italia è fondamentale avere buone relazioni con un Paese importante come l’Egitto”.

Forse si dovrebbe essere pratici e pragmatici come Crimi o come Salvini? Quel realismo è lo stesso che fa dire al generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa (sta per “Intelligence Culture and Strategic Analysis”), in un’intervista a Formiche.net: “Se si dovesse valutare ogni possibilità di esportazione sulla base del tasso di democrazia dei Paesi destinatari, non si esporterebbe più nemmeno uno spillo… Non può essere il caso di una persona a dettare tempi e modi della politica estera italiana”. Sorvolando sul fatto che gli spilli fanno meno male di un nave da guerra, il generale suggerisce pure di ritoccare la legge 185 del 1990 (già poco rispettata): “Andrebbe riscritta senza dimenticarne i valori di riferimento, ma tenendo conto del contesto geopolitico e dei rapporti internazionali, non più ingessati e catalogabili come un tempo.

Il pragmatismo per giustificare il peggio

Dunque, pur di restare a galla nel mare insidioso della geopolitica e dell’economia globalizzata, per alcuni il pragmatismo non è un’opzione tra tante: è la parola d’ordine. D’altra parte, senza bisogno di scomodare il solito Machiavelli, basti ricordare che il “realismo politico” – tradizione di pensiero caratterizzata da uno sguardo disincantato sulle cose della politica interna e internazionale – ai più scafati appare l’antidoto ideale contro il vuoto lasciato dalla crisi delle grandi ideologie. Tanto che ormai non si mostra più pudore nell’evocarlo come alibi per ogni scelta. Così purtroppo si trascura il fatto che il realismo-virus non stia trovando anticorpi, privando un po’ per volta la politica di spessore normativo, oltre che di orizzonte morale.

Forse, però, si può essere realistici anche senza sentirsi in dovere di giustificare il peggio. Come? Cambiando modo di produrre (ed è surreale doverlo ricordare ai pentastellati, che fino al 2018 ne sono stati i portabandiera teorici). Invece di fabbricare armi sempre più sofisticate e potenti, potremmo progettare di diventare specialisti nella costruzione di qualcosa di buono e di esportabile: ponti che stanno in piedi, ospedali in grado di affrontare un’emergenza, centrali elettriche ecosostenibili, navi mercantili rispettose dell’ambiente, tanto per citare alcuni esempi. In questo modo, forse riusciremmo a far girare lo stesso la nostra economia; senza dipendere in modo così diretto dalle scelte di dittatori e senza dover sottoscrivere le loro autoassoluzioni. Per riuscirci – o almeno per provarci – occorre pensare a un progetto politico: italiano, tanto per cominciare (dopo magari anche europeo). Altrimenti avremo sempre il guerrafondaio o il golpista di turno davanti alla cassa del supermarket bellico italiano: lì troverà in vendita sugli scaffali, assieme alle armi, anche le nostre amnesie, insieme insieme con gli scampoli della nostra coscienza civile.