Lavorare tutti
lavorare meno
e sostegno al reddito:

“I suoi occhi brillano davvero di eccitazione solo se si parla di appalti pubblici”. Chissà cosa avrebbe detto il manager Fiat che ci ha lasciato questa fulminante descrizione di Cesare Romiti, vedendo la battaglia furiosa che buona parte del capitalismo italiano sta combattendo per assicurarsi la quota più ampia possibile dei miliardi del Recovery Fund. La posta in gioco è talmente ghiotta da giustificare una campagna incessante volta a rendere il governo, che dovrà gestire i fondi europei, più permeabile agli interessi di quei privati da sempre inflessibili critici dell’intervento pubblico nell’economia, eccetto quando c’è da ricavarne un profitto.

 

Dove mira la strategia di Bonomi

Il recente intervento del presidente di Confindustria Bonomi è un esempio perfetto di questi appetiti: chiede mani libere attraverso “condizioni regolatorie e di mercato tali da tornare ad accrescere produzione e occupazione” ma si scaglia contro il sostegno a chi è in difficoltà al grido di “non vogliamo diventare un Sussidistan” (leggi qui l’intervento). Insomma, come giustamente nota Andrea Orlando: “Quando li prendono gli altri si chiamano sussidi. Quando li prendi tu, contributi alla competitività” .
Ma se è chiaro a tutti che il Recovery Fund sarà un’occasione irripetibile almeno nel breve termine, è molto meno chiaro quali debbano essere le sue finalità. Tanti soldi ma per fare cosa?

Durante la pandemia ci siamo ripetuti spesso che non dovevamo tornare alla normalità perché proprio la normalità era il problema. Eppure i poteri economici spingono per riaccendere il pilota automatico e l’idea è sempre la stessa: dare tutti i soldi alle imprese e poi saranno queste a creare sviluppo, lavoro e benessere. Purtroppo la storia degli ultimi 25 anni, durante i quali ci siamo prodigati nel comprimere salari e diritti dei lavoratori per rimuovere gli ostacoli al funzionamento delle imprese e liberarne il potenziale, dimostra che è una strategia fallimentare.

Sfuggire ai soliti errori significa mettere in campo una strategia che permetta di costruire una società in grado di produrre benessere diffuso per tutti i suoi cittadini, non per pochi ricchi. Il mezzo principale che abbiamo per poterlo fare è quello di rimettere al centro della nostra azione reddito e lavoro, che devono diventare la reale priorità e non una conseguenza eventuale della crescita economica.

Una strategia che abbia questo fine dovrà poggiare su almeno tre pilastri.

 

Primo: creare occupazione

Il punto di partenza non può che essere quello degli investimenti garantiti dal Recovery Fund per sostenere la domanda e creare lavoro. Dovranno perseguire contemporaneamente due obiettivi.

Il primo è quello della riconversione ecologica dell’economia, per rispondere alle sfide ambientali e provare a evitare il collasso ecologico verso il quale ci sta conducendo il capitalismo. Nel concreto, significa investire nell’ammodernamento ecologico degli edifici, in produzioni alternative (non-profit, filiere corte, sistemi di cooperazione) e nella riconversione delle imprese ad alto impatto ambientale. Non finisce qui, questa strategia di de-carbonizzazione si rivelerà tanto più di successo quanto più verrà accompagnata da altre misure indispensabili: carbon-tax, limiti più stringenti all’inquinamento ambientale, fine dei sussidi all’industria fossile.

Il secondo obiettivo è strettamente legato al primo. Si tratta infatti di favorire innovazioni di prodotto e di processo, al fine di accompagnare una nuova specializzazione settoriale dell’economia italiana. Questa ha perso competitività sui mercati internazionali perché è specializzata in settori maturi e servizi a basso valore aggiunto, perché le sue imprese sono in media troppo piccole e quindi senza le possibilità di investire in innovazione, perché facciamo poca Ricerca & Sviluppo (leggi il rapporto Istat ). Per troppo tempo abbiamo procrastinato ed evitato di affrontare questi nodi, accontentandoci di guadagnare tempo comprimendo salari e diritti nel tentativo di fornire ossigeno a un sistema in difficoltà strutturale. Il Recovery Fund deve essere utilizzato per investire strategicamente nella soluzione di questi problemi.

Tuttavia, stimolare la domanda e portare gli investimenti pubblici al 3% sul PIL, come previsto dal Piano italiano di ripresa e resilienza presentato alle Camere (consultalo qui ), non significa automaticamente un aumento di posti di lavoro in grado di riassorbire i milioni di disoccupati e sottoccupati italiani. Anzi, è lecito pensare che una strategia che punti esclusivamente sugli investimenti non sarà sufficiente.

 

Secondo: sostegno al reddito

Quindi, il secondo pilastro su cui dovrebbe poggiare la nostra azione è quello di una misura universale di sostegno al reddito per proteggere chi il lavoro lo perde o non lo trova. Il dibattito, spesso surreale e a tratti vergognoso attorno al reddito di cittadinanza –di cui sono un ottimo esempio i recenti tweet del finanziere Davide Serra -, è rivelatore. Ci avverte che perfino una misura timida e incompleta quale è quella italiana, un reddito minimo condizionato alla formazione e al reinserimento lavorativo, è considerata eccessiva per i poteri economici del nostro paese. Questi pretendono che le risorse pubbliche vadano direttamente alle imprese e qualsiasi intervento di sostegno diretto al reddito viene invece tacciato di assistenzialismo parassitario. L’aspetto che viene omesso è che spesso queste risorse pubbliche non si trasformano in lavoro di qualità e benessere per tutti ma in profitti per le imprese stesse.

Anzi, è necessario andare oltre e al sostegno al reddito va affiancato un aumento della gratuità. Occorre finanziare, tramite una fiscalità generale fortemente progressiva, un allargamento dei servizi offerti gratuitamente a tutti, sulla base dell’idea che possa esserci cittadinanza piena solamente se vengono assicurate alcune libertà sociali fondamentali. Significa rendere gratuiti gli asili e i libri di testo per garantire l’istruzione; i trasporti pubblici per il diritto alla mobilità; le visite mediche, gli esami diagnostici e i farmaci per il diritto alla salute; la banda larga per il diritto alla connessione.

 

Terzo: ridurre l’orario di lavoro

Infine, il terzo pilastro deve essere quello della settimana di 4 giorni, riducendo l’orario di lavoro a parità di salario. Se il primo pilastro serviva a creare nuovo lavoro e il secondo a sostenere chi non lavora, questo terzo pilastro mira a redistribuire il lavoro che già c’è.

In una società dell’abbondanza c’è una difficoltà crescente nel creare nuovo lavoro socialmente necessario poiché la capacità del sistema di produrre beni e servizi eccede strutturalmente la capacità della domanda. Non riusciamo a garantire un lavoro a tutti perché produciamo già un quantità di beni e servizi maggiore di quella che serve per rispondere ai nostri bisogni materiali. Per non fare inceppare il sistema ricorriamo a ogni sorta di stratagemma: marketing ossessivo, bolle creditizie e obsolescenza programmata.
Allo stesso tempo, moltissimi bisogni non materiali sono sacrificati e ignorati: dobbiamo produrre o consumare, ogni attività che non sia funzionale a generare un profitto non trova spazio. Giocare coi propri figli, chiacchierare con gli amici, fare sport, passeggiare con il cane oppure coltivare un orto vengono confinati ai ritagli di tempo perché sono attività non abbastanza remunerative per il sistema economico.

Ridurre l’orario di lavoro a parità di salario consente di riequilibrare uno squilibrio. Da un lato perché permette a un maggior numero di persone di accedere a un lavoro e quindi al ruolo sociale, al reddito e ai diritti che esso garantisce. Dall’altro perché, liberando tempo, ci permette di rispondere meglio a troppi bisogni che ora siamo costretti a trascurare.
Naturalmente per arrivare alla settimana di 4 giorni è necessario un percorso progressivo. Già oggi esistono alcune aziende che applicano le 30 o 35 ore pagate 40, e ci sono contratti nazionali sia nel pubblico che nel privato che hanno orari inferiori alle 40 ore settimanali. Per alcune imprese, le più produttive e innovative, è già possibile ridurre l’orario a parità di salario, per altre c’è più lavoro da fare. Per queste aziende possiamo immaginare una strategia progressiva, come quella che sta studiando la Regione di Valencia in Spagna (vedi qui): riduzione dell’orario a parità di salario e compensazione per le aziende per i maggiori costi al 100% al primo anno, al 50% il secondo e al 25% al terzo. Ciò gli darebbe il tempo di adattarsi e di fare i cambiamenti necessari, spingendole a essere più efficienti e innovative.

Tutto ciò oggi potrebbe apparire radicale o peggio velleitario, ma non dimentichiamo che alle orecchie dei nostri bisnonni di inizio ‘900, parlare di ferie pagate, pensione per tutti e sabato festivo doveva sembrare altrettanto ardito.

Oggi battersi per un programma che preveda investimenti verdi, sostegno universale al reddito, gratuità e riduzione degli orari è altrettanto coraggioso e potenzialmente in grado di minacciare gli attuali iniqui equilibri di potere. La combinazione di queste politiche è in grado di sostenere e costruire una società della piena occupazione a orario ridotto. Una società fortemente desiderabile perché più eguale, prospera e rispettosa dei limiti ambientali.