Salvini-Open Arms, va in scena la commedia del trasformismo
Ormai siamo dentro i siparietti della migliore commedia all’italiana. Primo atto. C’è il governo giallo-verde. Il capitano viene salvato dal processo. Scene di esultanza tra i membri grillini della commissione. Il portavoce del popolo Giarrusso, con gesti plateali, si accanisce contro le opposizioni soccombenti. Atto secondo. Stesse manifestazioni di giubilo per l’esito del voto. Sempre i grillini festeggiano perché stavolta il capitano andrà sotto processo. Le ipotesi di reato riguardano però atti commessi quando era al governo proprio con loro e insieme a Conte esponeva i manifesti di propaganda del governo pop per salutare l’approvazione del decreto-Salvini.
Ce n’è abbastanza per tirare una conclusione definitiva su quello che è diventata la (anti)politica italiana. Una caduta irreversibile verso il trasformismo deteriore si raggiunge quando il presidente del consiglio di allora (e di adesso) viene esaltato dal Pd come “un gigante”. Con “la popolarità che ha conquistato Conte, per il suo rapporto con la maggioranza degli italiani”, al pio avvocato tocca quasi per acclamazione “la leadership della coalizione, rappresentativa e inclusiva”. E questa arte della rimozione continuano a chiamarla politica.
Che Salvini scambi la politica con il sequestro di persona, ci sta. La caccia al migrante è nella tradizione di una certa destra “truce”. Che i ribelli grillini siano i maestri della falsificazione nella loro scialba recitazione in maschera, è ugualmente scontato. Che invece gli ultimi eredi, sia pure in tono minore, del vecchio Pci siano gli interpreti intransigenti del trasformismo più sfacciato, questo non è un evento del tutto banale e quindi va spiegato. Quando con Occhetto, Veltroni, e ora Bettini, il superamento del Pci condusse a rinunciare ad un chiaro approdo socialista europeo, la navigazione diventava a vista, con i rischi dell’improvvisazione e anche dell’opportunismo più meschino.
Il vuoto di identità conduce, quasi per necessità, una leggerissima forza genericamente democratica al populismo con un esagerato culto del nuovismo, del giustizialismo, della rottamazione, dell’inesperienza come valore politico, del mito salvifico della società civile. E’ una storia vecchia: Di Pietro, che prima era un elettore del Msi e che condusse a Milano un processo in stile tribunale del popolo, con ammiccamenti ricercati verso il pubblico delle tv e anche quello fisicamente raccolto in aula, divenne un alleato insostituibile. La vocazione maggioritaria di Veltroni scacciò, in nome del voto utile, le sigle della sinistra radicale ma accolse l’Idv tra le sue creature predilette.
La culla culturale del grillismo egemone di oggi (quello stile eclettico, oltre destra e sinistra, che reclama sul Fatto una sintesi originale da sigillare con una strada romana da intitolare congiuntamente a Berlinguer e Almirante) è stata a lungo dominante nel giornale di Gramsci. L’attrazione odierna per “il populismo sociale” che scambia politiche economiche e industriali con lo Stato sussidiario, che elargisce bonus a debito, e sforna manager pubblici della levatura di Mimmo Parisi, Tridico e Carmine America, non è quindi uno sviamento solo congiunturale. Una cultura sfinita come quella del post-Pci non ha pensiero, organizzazione, radicamento sociale. Deve perciò ricorrere alla tattica del cuculo, affidarsi ad altri per trovare in maniera rocambolesca una comoda collocazione governativa.
Stare sempre al governo, senza vincere mai le elezioni, è certo un dono invidiabile di chi è baciato dalla fortuna, ma alla lunga comporta rischi di degenerazione dell’idea, del senso stesso della politica. La coerenza, il rigore, un progetto di società, in definitiva una cultura politica, non contano più nulla e la ricerca della carica elettiva è tutto. E questo tirare a campare per garantirsi una forza residuale e utile però nelle contrattazioni parlamentari per fare i governi in nome di una qualche emergenza determina il collasso nelle credenze di massa e quindi accelera il trionfo nei territori di una post-democrazia dal volto inquietante.
Rientra sempre nella commedia la scena con cui il parlamento manda a processo il ministro degli interni e dedica una ovazione, poco compatibile con la dignità delle istituzioni repubblicane, al presidente del consiglio di quell’esecutivo che il decreto sicurezza ha varato e mai ha ritenuto opportuno modificare di una sola virgola. E’ evidente che il processo penale al vecchio titolare del Viminale è al tempo stesso un processo politico al nuovo e vecchio inquilino di Palazzo Chigi. Allora capo egli non era ma servitore di due padroni, oggi i galloni li ha conquistati ma solo grazie al nanismo dei sodali che senza memoria lo elevano a gigante cui concedere poteri di emergenza. Una commedia che non fa nemmeno ridere.
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