L’assurdo muro USA-Nato al piano cinese che non dispiace a Kiev

Può sembrare paradossale, ma nelle reazioni al “documento di posizione” messo a punto dalla diplomazia cinese, gli ucraini sono stati più possibilisti degli americani e della NATO. Fin dall’inizio, da quando cioè il piano in dodici punti è stato consegnato l’altra sera all’incaricata d’affari di Kiev a Pechino, la quale avrebbe affermato di giudicarlo “un segnale del fatto che la Cina vuole essere parte degli sforzi mondiali per porre fine al conflitto”, alle dichiarazioni per così dire “preventive”, rilasciate cioè quando del documento si conoscevano solo le linee essenziali ma non il testo preciso sia dal ministro degli Esteri di Kiev Dmytro Kuleba che da Volodymyr Zelensky in persona, il quale in occasione del suo incontro con il leader spagnolo Pedro Sanchez si è detto “pronto a parlare con i diplomatici cinesi” per discutere quello che gli pare “un primo passo promettente”.

Le obiezioni al “documento di posizione”

A fronte di queste caute ma percepibili aperture c’è invece la mole delle obiezioni alzate come una diga tanto dagli esponenti dell’amministrazione americana, il Segretario di Stato Anthony Blinken e il Security Advisor del presidente Jake Sullivan, quanto dal Segretario generale della NATO Jens Stoltenberg.

Gli argomenti dichiarati su cui si appoggia la diga dei no sono due: 1) la Cina “non è credibile” perché non ha mai condannato ufficialmente l’invasione russa dell’Ucraina, neppure l’altra sera quando nell’assemblea generale dell’ONU si è astenuta piuttosto che votare a favore della risoluzione di condanna; 2) esiste il sospetto che l’”amicizia senza limiti” tra i due popoli affermata in pompa magna da Vladimir Putin e Xi Jinping all’apertura delle Olimpiadi invernali di Pechino tredici giorni prima del fatidico 24 febbraio dell’anno scorso possa concretizzarsi in travasi di “armi letali” dagli arsenali cinesi a quelli russi.

Un sospetto è un sospetto e tanto Blinken che Stoltenberg hanno ammesso che per ora di questi turpi commerci non c’è prova, ma, con una coincidenza quanto meno un po’ sospetta, poche ore dopo le loro dichiarazioni l’edizione online dello Spiegel ha lanciato la notizia secondo la quale il ministero della Difesa di Mosca starebbe trattando con l’azienda cinese Xi’an Bingo Intelligent Aviation Technology la produzione in massa di droni kamikaze.

Si vedranno gli sviluppi. Intanto non sfugge agli osservatori che l’ostilità americana (e di riflesso quella degli alleati NATO) verso l’iniziativa cinese ha radici ben più antiche e solide di quelle dichiarate nelle ultime ore. Da sempre gli americani considerano un possibile ruolo cinese di mediazione nella crisi ucraina come un grimaldello dei capi di Pechino per forzare l’assetto attuale dei rapporti di forza tra le potenze, ritagliarsi un ruolo in Europa e avere mano libera nell’unica area di scontro che giudicano davvero importante con gli Stati Uniti: il Pacifico meridionale e Taiwan.

Tutti i conflitti sullo sfondo

È chiaro che queste considerazioni di strategia globale interessino ai dirigenti di Kiev molto meno che agli occidentali. Oltretutto, finché la crisi tra l’Ucraina e la Russia non è precipitata, i rapporti bilaterali con Pechino erano fondati su un buon livello di scambi commerciali e gli ucraini contavano probabilmente sui vantaggi che come paese di passaggio avrebbero potuto lucrare dallo sviluppo del megaprogetto cinese della Via della Seta. Proprio le difficoltà che la guerra sta creando alla libertà degli scambi commerciali sono, come si sa, un assillo dei dirigenti cinesi e non è un caso che uno dei punti del loro “documento di posizione” preveda l’abolizione di tutte le sanzioni che l’Occidente ha comminato al regime di Putin e che insiste a comminare, pur nell’evidenza della loro efficacia molto dubbia sull’economia russa

Ciò che conta di più nell’atteggiamento interlocutorio non negativo degli esponenti ucraini nei confronti del documento cinese sono, più che lo sfondo politico globale, i contenuti specifici relativi alla crisi. Innanzitutto quello chiaramente esplicitato nel primo dei dodici punti: il richiamo all’obbligo del rispetto della sovranità degli stati e dell’integrità dei loro confini. Un’affermazione di principio che non è del tutto nuova nelle prese di posizione cinesi, ma che mai era stata espressa in una forma tanto giuridicamente cogente, con precisi riferimenti alla carta delle Nazioni Unite e all’azione di tutti i paesi a “sostenere congiuntamente le norme fondamentali che regolano le relazioni” e a “difendere l’equità e la giustizia internazionali”.

Si potrebbe facilmente obiettare che quelle rigorose raccomandazioni la Cina dovrebbe rivolgerle innanzitutto a se stessa, considerate le sue posizioni e le sue azioni concrete nei propri “cortili di casa”, non solo Taiwan ma anche Hong Kong, il Tibet o lo Xinjiang della minoranza oppressa degli Uiguri, ma a Kiev dev’essere piaciuta la chiarezza con la quale, pur evitando di citarla, il documento cinese allude all’invasione russa dell’Ucraina e quindi alla necessità che, in nome dei princìpi, i territori occupati dalle truppe di Mosca tornino sotto la sovranità di Kiev. Completamente o in parte, esclusa o no la Crimea, con garanzie particolari il Donbass: tutto questo si vedrebbe in sede di negoziati e al momento è oggetto di prevedibili e per ora insuperabili pregiudiziali, ma in una situazione di cessate-il-fuoco delle trattative anche su questo aspetto potrebbero comunque cominciare. È abbastanza strano, pur se forse spiegabile con una certa sudditanza alle tesi americane e NATO, che nei commenti della stampa occidentale – soprattutto italiana – la novità rappresentata da questa chiarezza sia stata sottovalutata se non proprio liquidata come un mero flatus vocis.

Sul punto del ritiro dei russi, peraltro, il documento cinese coincide con il piano in dieci punti che, presentato da Zelensky al recente G20 di Bali, viene considerato da Washington e dalla NATO l’unica posizione di partenza per ogni negoziato possibile. E non è l’unica coincidenza. Posizioni simili o comunque vicine si riscontrano su altri capitoli: la sicurezza delle centrali nucleari, lo scambio di prigionieri, le esportazioni del grano, la protezione dell’ambiente. Un’importanza particolare nel piano cinese è attribuita alla salvaguardia delle strutture essenziali per le popolazioni civili (elettricità, riscaldamento, acqua), con un’implicita condanna delle azioni compiute dai russi contro queste elementari condizioni per la vita delle persone: veri e propri crimini di guerra che il piano ucraino – ma non quello cinese – chiede che vengano giudicati da una corte internazionale.

Le divergenze tra Cina e Ucraina

La richiesta di un intervento della giustizia internazionale, al quale presumibilmente Mosca si opporrebbe radicalmente, è il punto di maggiore divaricazione fra i due documenti, insieme con la questione della futura collocazione dell’Ucraina nel sistema delle alleanze nell’area. Su quest’ultimo aspetto il contrasto è fondamentale, ma si può sperare che non sia proprio insuperabile. I cinesi considerano che la vera ragione del conflitto risieda nel processo di allargamento della NATO verso est e dalla “arroganza” con cui gli americani lo hanno portato avanti non solo ai danni della Russia ma di tutto l’equilibrio internazionale, quindi anche contro di loro. Nel punto due del documento, “abbandonare la mentalità della guerra fredda” si legge che “la sicurezza di una regione non dovrebbe essere raggiunta rafforzando o espandendo i blocchi militari” e che “i legittimi interessi e le preoccupazioni di sicurezza di tutti i paesi debbono essere presi sul serio e affrontati adeguatamente”. Si riconosce, insomma, alla Russia un suo buon diritto in quella che fu, all’epoca, una (ripetiamo: una) delle ragioni dell’”operazione speciale”: evitare che entrando l’Ucraina nella NATO i missili americani arrivassero a poche centinaia di chilometri da Mosca. Considerando soltanto questa motivazione alla base xi jinpingdell’avventura militare di Putin Pechino ignora però le altre ragioni per cui i russi si mossero contro il paese vicino: il disegno imperiale di riunificare in una Russia tornata ai fasti dell’epoca sovietica tutti i russi, o meglio tutti i russofoni, che vivono fuori dai suoi attuali confini.

Si tratta, da parte di Pechino, dell’ignoranza di una delle ragioni specifiche e più pericolose del nazionalismo russo, ignoranza condizionata probabilmente dal fatto che lo stesso istinto non è estraneo alla concezione del proprio ruolo nel mondo che di sé hanno i cinesi.

Gli ucraini, come si desume dal loro piano, hanno ottime ragioni invece per temere questo aspetto del neoimperialismo postsovietico di Putin e nel loro piano è prevista l’adesione al cosiddetto Patto di sicurezza di Kiev per la fornitura da parte occidentale di “risorse politiche, finanziarie, militari e diplomatiche” per garantire la difesa dell’Ucraina. In sostanza il patto istituzionalizzerebbe, per così dire, gli aiuti che l’Occidente fornisce attualmente all’Ucraina in guerra nell’attesa che il paese fosse maturo per entrare ufficialmente nella NATO.

La lontananza tra i due documenti su questo aspetto è evidente. Non va dimenticato, però, che da parte ucraina non c’è mai stata una preclusione totale a considerare quelle che i russi (e con loro i cinesi) considerano una garanzia di sicurezza per loro essenziale come se non la neutralità vera e propria almeno una rinuncia ufficialmente sancita a non dispiegare armi aggressive potenzialmente pericolose per Mosca. Colloqui su questo particolare aspetto furono condotti nell’ambito dei primi e presto abortiti negoziati tra le due parti nelle settimane immediatamente successive all’aggressione e si sa che anche fra russi e americani misure di disarmo regionale prima ancora che la situazione precipitasse di questi argomenti in modo discreto, ma non troppo, si parlò. La riproposizione, da parte di Zelensky, di un’offerta di garanzie di sicurezza a Mosca aiuterebbe il cammino verso quanto meno una de-escalation del conflitto? È una domanda che forse a Kiev qualcuno si starà ponendo.