L’arresto (eventuale) di Trump e la tragedia di una democrazia dimezzata
Non è ancora successo, come Donald Trump – “mi arresteranno martedì prossimo, protestate!” – aveva in gran pompa annunciato giorni fa, chiassosamente chiamando il “suo” popolo all’insurrezione. Ma tutto lascia credere che succederà e che succederà presto. Tanto presto che, addirittura, già potrebbe esser successo al momento della pubblicazione di quest’articolo. Ed almeno su un punto non v’è, nell’attesa, dubbio alcuno: dovesse per caso non succedere, sarebbe una grande sorpresa. Per tutti. Ed anche una causa di grande disappunto per chi già aveva comunicato al mondo la data del proprio “martirio” e quella della conseguente ondata di popolare indignazione,

Venendo ai crudi fatti: Donald J. Trump s’appresta a diventare – o, per l’appunto, già sarà diventato alla lettura di queste righe – il primo presidente (o ex-presidente) degli Stati Uniti d’America ad essere incriminato dalla giustizia ordinaria. Più ancora: sarà il primo presidente, ex-presidente e, in aggiunta, nuovo candidato alla presidenza, a subire l’onta d’una incriminazione e d’un arresto. E, date queste inedite premesse, sarà proprio lui, Donald J. Trump, il primo candidato alla presidenza ad usare senza remore questa incriminazione come bandiera della propria campagna elettorale. Il tutto per la disperazione di quel che resta del cosiddetto establishment repubblicano e, ancor più, degli altri aspiranti alla nomination del G.O.P. (Grand Old Party).
La decisione nelle mani di una Grand Jury
Al momento, tutto è ancora nelle mani di una Grand Jury (Gran Giuria) che dovrà, a maggioranza, decidere se le prove raccolte nel corso delle indagini condotte dal DA (District Attorney) di New York, Alvin Braggs, sono sufficienti per aprire ufficialmente – e con ragionevoli possibilità d’un finale verdetto di colpevolezza – un procedimento giudiziario contro Donald Trump.
Vale a dire: dovrà stabilire, quella Gran Giuria, se davvero, in base ai dati raccolti, sul finire della campagna delle primarie del 2016, l’ex presidente abbia commesso un crimine nel comprare – con un versamento di 130.000 dollari – il silenzio di Stormy Daniels, al secolo Stephanie Clifford, una porno-star con la quale aveva anni prima avuto una relazione extraconiugale.
Sul piano della cronaca politica (e di quella rosa) la vicenda appare assai banalmente lineare: Trump, che peraltro sempre ha negato d’aver avuto qualsivoglia rapporto con Stormy, non voleva turbative a sfondo erotico-sessuale nel pieno della sua campagna per la nomination repubblicana. E per questo ha, danaro alla mano, provato, con fallimentari esiti, a metter tutto a tacere.
130.000 dollari per comprare il silenzio di una porno-star
Estremamente contorte – non essendo l’adulterio e la volontà di mantenerlo segreto considerati ovviamente reati – sono invece le cose sul piano giuridico. E contortamente si snodano lungo complicatissimi tornanti di natura amministrativo-finanziaria. Tutto (o quasi tutto) ruota in sostanza attorno alla legalità, o presunta illegalità, delle vie seguite per pagare quei 130.000 fatidici dollari e, soprattutto, attorno al modo in cui questa spesa è stata legalmente (o illegalmente) dichiarata.
Come qualcuno tra i più meticolosi archivisti delle magagne trumpiane certamente ricorda, fu a suo tempo l’avvocato-factotum di Trump, Michael Cohen, che per questo già è stato, nel 2018, condannato a tre anni di carcere, a materialmente pagare Stormy Daniels (ed anche un’altra modella di PlayBoy, ma non complichiamo le cose). E quei 130.000 dollari, da Trump a lui restituiti, vennero poi, mentendo, presentati alle competenti autorità come normali “spese legali”.
Fu tutto ciò fatto con la volontà di nascondere una patente violazione delle leggi che regolano le spese in campagna elettorale? Se la risposta è sì – e tutto lascia credere che questa sia l’opinione della maggioranza della Grand Jury – Trump è colpevole. E per questo, al pari di tutti quei cittadini che, come recita il preambolo della Dichiarazione d’Indipendenza, sono stati “creati uguali”, dovrà essere incriminato, giudicato ed eventualmente condannato.
Non sarà un processo breve. Ed impossibile è pronosticare quali possano essere, nell’immediato ed in prospettiva, le conseguenze della messa sotto accusa di Trump e dei suoi “sovversivi” appelli, via social, alla protesta.
Molti – per opposte ragioni – sperano di vedere (cosa improbabile, ma possibile) l’ex presidente materialmente in manette. Per alimentare le proteste e tutte le teorie cospirative che sorreggono il trumpismo, da un lato della barricata. O, dall’altro, per il semplice piacere di vedere almeno visualmente esaudito un desiderio – quello di assistere alla punizione d’un individuo considerato un delinquente – a lungo invano coltivato. Si vedrà.
Perché Trump spera nell’arresto
Nel frattempo, tuttavia, già si può provare a rispondere alla più ovvia delle domande che – lungo il filo d’un incrociarsi di paradossi – vengono inevitabilmente proposte dall’evolversi del caso. Per quale ragione, di fronte alla prospettiva d’una incriminazione – e d’una incriminazione che non conosce precedenti nella storia degli Stati Uniti d’America – è proprio Trump che, oltre la prevedibile facciata d’una incontenibile e vittimistica indignazione, più sembra gioire per il dipanarsi degli eventi? Perché insieme a lui sembrano gioire anche i suoi più ovvi nemici, i democratici d’ogni tendenza? E soprattutto: perché, al contrario, sono i repubblicani – o quel poco che resta del Partito Repubblicano ancora non del tutto trasfiguratosi nel culto di Trump – a piangere (sia pur mascherandole dietro molto affettate manifestazioni di pubblico sdegno) amarissime e disperate lacrime?
Una prima risposta è arrivata, giusto ieri, da un sondaggio – il primo tenutosi dopo il trumpiano annuncio del “mi arrestano, protestate” – relativo agli “indici di gradimento” dei già dichiarati, probabili o possibili candidati repubblicani in vista delle presidenziali del 2024. Donald Trump vanta oggi un imponente 54 per cento delle preferenze, contro il 26 per cento del governatore della Florida, Ron DeSantis (il più credibile dei suoi possibili rivali), il 7 per cento dell’ex vicepresidente Mike Pence ed il 4 per cento di Mikki Haley, ex governatrice del South Carolina ed ex ambasciatrice all’ONU. Per tutti gli altri “papabili”, nemmeno briciole.
Solo qualche giorno fa, la distanza tra Trump (che già si è candidato e che è da tempo in piena campagna) e Ron DeSantis (che ancora non si è candidato ma che già è, egualmente e da tempo, in piena campagna) era inferiore ai 10 punti. Con le manette ai polsi – reali o metaforiche che siano – Donald Trump appare, in vista delle primarie repubblicane, più che mai imbattibile. E questo spiega la sua gioia e quella di chi – Joe Biden o chi per lui nel partito democratico – ardentemente spera di averlo come rivale nelle prossime presidenziali.
La pesante sconfitta repubblicana di novembre
Per meglio capire, vale la pena tornare per un attimo indietro allo scorso novembre. Ovvero: agli esiti delle elezioni di metà mandato ed a quella che a tutti gli effetti è stata – come già analizzato qui su StrisciaRossa – una pesante sconfitta repubblicana. Giusto per rifrescare la memoria. Tutto lasciava, in quelle elezioni, prevedere una travolgente, storica vittoria del G.O.P.. Un’onda rossa, “a Red Wave”, come tutti, con gioia o con dolore, andavano ripetendo.
Ed invece di travolgente non c’è a conti fatti stato, per i repubblicani, che l’amaro e non dissimulabile disappunto per il raggiungimento – grazie alla conquista di appena una decina di seggi contro i sessanta preventivati – d’una molto striminzita (e, in quanto tale, come si vedrà, ricattabilissima) maggioranza nella House of Representatives, nonché per la perdita d’un seggio al Senato. Salvo un paio di eccezioni maturate in eccezionali circostanze, mai il partito d’opposizione – quello che due anni prima aveva perso la corsa alla Casa Bianca – aveva ottenuto, nel “midterm”, risultati tanto miserandi.
Le ragioni della sconfitta? Tutte con ogni evidenza racchiuse in un solo nome: Donald Trump. E tutte spiegabili con il fatto che, con una brillante lettura degli umori dell’elettorato, proprio contro Trump e contro i MAGA-republicans, i più fanatici seguaci di Trump (quelli che, poco prima del voto, il presidente Joe Biden aveva, dimentico delle sue antiche passioni “bipartisan”, definito “semi-fascisti”) i democratici avevano condotto la loro campagna elettorale.
L’assalto a Capitol Hill

E tanto evidenti erano d’acchito apparse le ragioni della disfatta – anche di questo già si è scritto si StrisciaRossa – che ancor più ampie crepe s’erano aperte nel rapporto tra Trump e gran parte del sistema mediatico che, per anni, lo ha sostenuto. Quello, in particolare – da Fox News al Wall Street Journal – che sotto l’egida di Rupert Murdoch già s’era con lui molto intiepidito dopo la vergogna dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio del 2021.
Quando, lo scorso 15 di novembre – meno di una settimana dopo il “midterm” – Donald Trump ha ufficialmente annunciato la sua (ri)candidatura per le presidenziali del 2024, questo la mattina dopo si chiedeva, quasi implorante, un editoriale del Wall Street Journal: davvero i repubblicani intendono nominare per la corsa del 2024 l’unico candidato “che i democratici sono sicuri di battere?”.
La risposta – un chiarissimo “sì” – è arrivata qualche settimana più tardi, quando, ufficialmente installatasi la nuova House of Representatives, si è preceduto alla nomina dello Speaker della medesima, operazione questa che, con pochissime eccezioni, sempre era stata, nel corso della Storia, una pura formalità. Non questa volta. Perché, questa volta, la Camera ha dovuto votare per ben quindici consecutive volte – un record assoluto – prima di consegnare nelle mani di Kevin McCarthy, designato leader della nuova maggioranza repubblicana, “the gavel”, il martello con il quale dirigere i lavori della Camera.
La ragione d’un tanto tortuoso e turbolento ritardo? I piedi puntati – a fronte d’una maggioranza risicatissima e, in quanto tale, per l’appunto esposta ad ogni ricatto – di 16 deputati appartenenti a quella frazione che gli osservatori politici avevano fino a non molto tempo prima definito in vari, ma immancabilmente sprezzanti modi: “MAGA on steroids”, “SUPER-MAGA” o, più spesso, “the fringiest fringe”, i più estremisti degli estremisti, i trumpisti oltre il trumpismo, quelli che (ignorando, nel caso, anche le indicazioni del capo del culto che li aveva invitati a votare McCarthy) apparivano nichilisticamente decisi ad estrarre dalle circostanze d’una vittoria (la conquista della maggioranza della Camera) che era in realtà una batosta elettorale, il massimo vantaggio possibile.
Quando, al sedicesimo voto, Kevin McCarthy ha infine afferrato, in una molto forzata simulazione di giubilo, l’agognato “gavel”, una cosa era del tutto ovvia. Trattativa dopo trattativa, concessione dopo concessione, “the fringiest of the fringe” – ovvero, quelli che della sconfitta elettorale erano i massimi responsabili – erano ormai diventati i veri padroni della linea del partito. Ed opportunamente collocati in molte delle commissioni della Camera si apprestavano ora a far libero ed ampio uso di tanto potere.
Tutte le analisi post-elettorali sembrano su questo concordare. Vera vincitrice del midterm è stata, in casa repubblicana, la rappresentante del 14esimo distretto dello Stato della Georgia, Marjorie Taylor Greene, oggi di fatto – grazie alla sua opera di mediazione tra McCarthy ed i 16 “ribelli” – se non proprio la “numero due” del Partito, come qualcuno ha scritto, di certo un’imprescindibile parte dell’establishment.
Giusto per dare un’idea. MTG (come viene per brevità chiamata Marjorie Taylor Greene) era fino a poco tempo fa considerata, cosa da lei più tardi solo parzialmente smentita, una “totale” seguace di QAnon, misteriosa setta secondo la quale il Paese è oggi guidato – attraverso il Partito Democratico, una parte delle élite hollywoodiane (Tom Hanks in particolare) e del famoso “deep state”, lo stato profondo della burocrazia civile e militare – da un cricca satanica di pedofili cannibali (probabilmente, nonostante le umane sembianze, rettili di origine extraterrestre) che Donald Trump e solo Donald Trump, da Dio all’uopo eletto, può sconfiggere e sbaragliare.
Assurdo? Delirante? Scegliete voi l’aggettivo. Il fatto è che, almeno in parte, è giusto sulla base di queste “idee” che, all’ombra della smidollata figura dello Speaker McCarthy, MTG va oggi dettando legge nella House of Representatives. Un bel passo in avanti per chi fino a ieri era considerata soltanto una deplorevole – e per molti aspetti inspiegabile – “parentesi” di pura follia all’interno della House of Representatives. Ed un bel passo indietro per un Partito che, fino a non molto tempo fa, era la metà conservatrice di un ancor raziocinante sistema democratico a base bipartitica.
Lo strano destino perdente dei repubblicani
Questo sembra essere il destino – uno strano, contraddittorio destino – di Donald Trump e dei suoi più fedeli seguaci. Più perdono e più si rafforzano all’interno del partito. Più si rafforzano all’interno del partito, più estreme diventano le loro posizioni. E più estreme diventano le loro posizioni più il partito risulta perdente.
Un destino, questo che è, oggi, anche la contraddizione di fondo, la “trappola storica” nella quale è finito quello che, in ormai altre ere geologiche, amava definire se stesso il “partito di Abraham Lincoln”. Senza Trump nessuno può vincere dentro il Partito Repubblicano. Con Trump, tutti perdono – o, almeno, perdono voti – quando discendono, da candidati, nel mondo reale. Vale a dire: in elezioni che li vedono contrapposti, di fronte al Paese, a rivali democratici. Trump ed il trumpismo – punti di arrivo o, se si preferisce, punti rivelatori d’una crisi maturata nel corso di molti anni – sono a tutti gli effetti denti cariati e sono la più immediata e diretta fonte delle sofferenze del G.O.P.. Ma non sono in alcun modo estraibili perché, se estratti, provocherebbero la morte per emorragia del paziente.
È in questo contesto che la vicenda della più che probabile incriminazione di Donald Trump va collocata per essere compresa.
Qualcuno ha in questi giorni, in attesa del verdetto della Grand Jury, rammentato la storia di Al Capone, notoriamente condannato infine all’ergastolo in quel di Alcatraz per una serie di reati fiscali. E questo dopo aver commesso, alla testa d’una delle più letali organizzazioni criminali della storia d’America, un’industriale quantità di efferati delitti. Assai tenue è però la base di questo storico parallelo. Sostanzialmente: il fatto che anche Donald Trump, responsabile d’una lunga serie di crimini che vanno dall’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, a palesi tentativi di frode elettorale (vedi la famosa telefonata nella quale chiedeva al Segretario di Stato della Georgia di “trovargli” gli 11,780 voti di cui aveva bisogno per conquistare il collegio elettorale nel 2020), a furti di documenti top secret e ad innumerevoli atti di corruzione (sono almeno sette le inchieste giudiziarie a suo carico ancora aperte), possa infine essere arrestato per la meno plateale e più giuridicamente opinabile delle sue colpe: la “mancia” rifilata, in anni ormai lontani, a una amante porno-star.
Tra un anno sarà ancora scontro Biden-Trump (ai dem va bene così)

È uno scandalo, vanno in queste ore tuonando i repubblicani – tutti i repubblicani – che, anziché perseguire i veri criminali, quelli che mettono a repentaglio la sicurezza dei cittadini, giudici al servizio del Partito Democratico, vadano perseguitando, per ragioni politiche e senza base alcuna, un ex presidente e prossimo candidato alla presidenza. Viva Donald Trump!
Evidente è tuttavia come – per quanto intrigante – il paragone non regga alla più elementare verifica. Perché Trump, arrestato o meno, non finirà ovviamente all’ergastolo ad Alcatraz (ex prigione di massima sicurezza che, peraltro, da alcuni decenni non è che una delle tante attrattive turistiche di San Francisco) né in altre carceri d’America. E soprattutto perché Al Capone mai ha, da “arrestato”, preso parte – come Trump già ha fatto e si appresta a rifare, con l’intero G.O.P. ai suoi piedi, nel 2024 – a elezioni presidenziali. E questo è, al di là degli esiti dell’inchiesta sui 130.000 dollari pagati a Stormy Daniels, il vero problema.
Piaccia o no, l’ex ed ora aspirante prossimo presidente non è oggi una zavorra solo per il partito che a lui si è, con un patto faustiano, consegnato mani e piedi nel 2016, ma per l’intera democrazia americana, “dimezzata” dalla “trumpizzazione” di una sua metà.
Tutto indica che, tra poco più di un anno, sarà di nuovo Trump contro Joe Biden. Una replica (e, per Trump, una rivincita) che, in ogni sondaggio, il 65 per cento degli americani dice di aborrire. La più antica – e per tradizione solida – delle democrazie del mondo sembra, a tutti gli effetti, sul punto di divorziare da se stessa. O, ancor peggio, di arrestare se stessa…
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