L’antica fame
e la folle cuccagna

“Quelli che adonque vogliono conservare la sanità e ritardare la vecchiezza, bisogna che usino quelle cose che generano buonissimo sangue e spesso, e così anco gli altri umori, come disse Avicenna parlando della canizia, dicendo la canizia si tarda ogni volta che il sangue sia spesso, grasso, caldo e viscoso; allora gli capelli son neri e, per contrario, quando il sangue è acquoso o che tira all’acquoso, allora gli capelli cominciano a farsi bianchi. Ma le cose che generano benissimo sangue sono vini odoriferi e sottili, carne di capretto, di castrato, pernice, fasani, pollastri, pavoni. Delle erbe il boragine, la latuca, e se queste cose si cuoceranno in pasticci o in arosto senza brodo sarà molto meglio e anco usar poi quelli medicamenti che hanno virtù di modificare il sangue, com’è absinzio, la trifora saracenica, mirabulani conditi, succo fumuterre, oro, perle, studiando il medico in quelle cose che fanno buona digestione, perché in quella è tutto il fondamento” (“Vaticinio et avvertimenti per conservare la sanità e prolongar la vita humana”, raccolto per Lampridio Anguillara da uno scrittore antico arabo detto Elbymitar, 1589).

Anche se noti a tutti, pochissimi erano coloro che potevano mettere in pratica questi elementari precetti che rientravano nella sfera delle cose “non naturales” che influivano potentemente sul problema de tuenda valetudine *. La miseria e la fame appartenevano invece alla categoria delle “res naturales”, divenute croniche ed endemiche in Occidente specialmente nei secoli XVI-XVIII, e come fenomeni non naturali di pertinenza dell’economia, delle tecniche produttive, della volontà politica dei governanti. Il rapporto precario fra produzione e demografia, fra uomini e risorse alimentari non fu mai tanto compromesso quanto nell’epoca in cui i contadini formavano la stragrande maggioranza della popolazione. La fame, primum movens biologico, ma anche “miserabile malattia” sociale, anticamera della morte che, sentenziavano i dottori, “est morborum summum”, era la più stretta alleata delle malattie  epidemiche, proprie delle società arrivate alla fase dell’organizzazione statale, che lasciavano tuttavia irresponsabilmente degradate vaste sacche umane sovraffollate e povere.

Negli anni d’infausta congiuntura i piccoli proprietari terrieri, costretti a vendere i loro campi alla grande proprietà a prezzi di strozzinaggio, finivano con l’accattare per le strade. Anche l’olimpico Alvise Cornaro ampliò enormemente le sue già estese proprietà utilizzando spesso come uomo di fiducia, mediatore e sensale, Angelo Beolco, il Ruzante.

Il pane dei poveri, degli straccioni, dei disoccupati e specialmente di coloro che, vittime di una logica economica e sociale paradossale, lo producevano, i contadini, è un pane sempre in fuga, inafferrabile come un incubo al rallentatore, d’interminabile durata. Nelle annate cattive il tempo dei nuovi raccolti, dell’estate e dei suoi frutti, della stagione in cui si poteva risentire il sapore del “pan novelo” era sognato, nella sospirata attesa, a partire dal tardo autunno.

Il paese di Cuccagna

Il Menego del ruzantiano Dialogo facetissimo, recitato durante la carestia del 1528, conta, aiutandosi con le dita, i mesi che lo separano dal pane fuggente: “Zenaro, fevraro, marzo, avrile, mazo, e an mezo zugno al fromento. Poh, a’ no gh’a riveròn mé! Cancaro, mo l’è el longo ano, questo” **.

Il registro comico di questo dialogo serve anche ad allontanare, esorcizzandola col riso, la terribile avversaria – la fame – e si sbizzarrisce con ampio repertorio inventivo nelle agro-dolci trovate dei contadini, nei loro artifici escogitati per tentare di contrarre i bisogni alimentari. Espedienti ritrovati per cercare di deviare o, almeno, attutire le dure leggi della necessità fagica, del fatum fisiologico, proponendo l’uso di astringenti come le sorbe, o il surreale stratagemma di tapparsi “la busa de soto”. In tal modo gli escrementi non potendo uscire, avrebbero mantenuto piene le budella neutralizzando la fame (“e sì no vegnerae pì tanta fame”).

L’imago mundi elaborata dalle rappresentazioni mentali popolari dell’età preindustriale diverge dal modello classico utilizzato dai clerici e dai literati, così come le categorie logiche (alla stessa stregua dei canoni estetici) appaiono diversi. L’immagine del mondo, vista dal basso, si profila incerta, slabbrata, equivoca, traballante e disomogenea, come nelle visioni degli allucinati e dei posseduti: le immagini possono ribaltarsi, le figure capovolgersi, i rapporti di tempo e di spazio alterarsi, l’edificio stesso del mondo divenire illusionistico e umbratile. Cuccagna, nella logica oppiata dell’impossibile, diventa una immagine pilota idonea a  penetrare nel cosmo mentale in cui il naturale (e il reale) è stato soppiantato dall’artificiale e dall’irreale. In questo universo onirico le leggi della meccanica e della fisica non hanno più senso: i maccheroni, pioggia commestibile, cadono dal cielo; la terra, non lavorata, produce mirabilmente cibi precotti; gli alberi non buttano gemme e foglie ma prosciutti e vestiti; gli animali, carnefici di loro stessi, si arrostiscono spontaneamente per la consolazione del ventre degli uomini. Abolita la fatica, sospeso il tempo, bloccata la fatale vecchiaia dalle fontane di giovinezza, trionfanti le donne, nel loro fulgore corporale, sui mariti cavalcati e sottomessi.

A Cuccagna, epifania del mundus inversus, il tempo felice ritorna, anzi si blocca. Il sogno dell’abbondanza fa magicamente sospendere, attutire e smorzare il morso dei visceri insoddisfatti.

(Piero Camporesi, “Il pane selvaggio”, 1980)

* Il problema della salvaguardia della salute

** “Gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, e anche mezzo giugno al frumento. Oh, non ci arriveremo mai! Canchero, ma è un anno ben lungo questo”.