L'”alternativa
del diavolo”, rischio
per l’esistenza del Pd
1. Quando nell’estate del 2019 scoppiò la crisi ad opera del capo della Lega Matteo Salvini, proprio su strisciarossa sostenni che bisognava andare alle elezioni, ed evitare soluzioni pasticciate. Lo scrissi nella persuasione che ci fossero le condizioni per una battaglia in campo aperto da cui lo schieramento riformatore di centro-sinistra poteva risultare anche vincente. Fu seguita un’altra strada, per iniziativa anzitutto di Matteo Renzi, che portò da un lato alla costituzione del secondo governo Conte; dall’altro alla formazione, dopo il varo del governo, di Italia viva.
Nella prospettiva di Renzi erano evidentemente due iniziative strettamente collegate e miravano, da un lato, a tenere sotto un ricatto permanente il governo, ma senza affossarlo ritenendosi allora padrone del gioco; dall’altro, a un lavoro di progressiva dissoluzione del Partito democratico con uno spostamento generale dell’asse politico italiano verso il centro, e una definitiva chiusura della lunga e gloriosa storia della sinistra italiana.
Tutte ipotesi progressivamente venute meno per ragioni oggettive e limiti soggettivi: in una situazione come quella in cui viviamo pensare alla possibilità di una ricostituzione del centro è una prospettiva cieca e senza futuro. Italia viva non è cresciuta e non si è sviluppata, arranca faticosamente intorno al 3%, perfino Calenda ha qualche voto in più; il ricatto di Renzi nei confronti di Conte è fallito.
L’unico risultato di quell’operazione è la situazione sempre più grave in cui continua a trovarsi il Partito Democratico che, a mio giudizio, ne mette in questione la stessa esistenza. Oggi, infatti, quel partito si trova di fronte a una sorta di alternativa del diavolo: continuare a sostenere Conte in maniera subalterna, e quindi avviarsi a un processo di vera e propria autodissoluzione dato il carattere assunto dal governo in questa ultima crisi; oppure andare alle elezioni, con il rischio reale di un trionfo della destra di Salvini e della Meloni e della sparizione nel nostro paese di una grande forza politica riformatrice e di centro-sinistra che, nel bene o nel male, è stata rappresentata in questi anni dal PD. Una situazione per molti aspetti drammatica, effetto delle scelte sbagliate nell’estate del ’19 e, prima ancora, di un lungo logorio e di una strutturale consunzione delle tradizionali forze di sinistra che affonda le sue radici, addirittura, negli anni ’70 del secolo scorso.
La crisi radicale della nostra Repubblica
2. Per cercare di orientarsi, occorre avere anzitutto chiaro un punto cruciale, reso evidente dalla situazione – talvolta grottesca – di questi giorni. La Repubblica – e con questo termine intendo dire il ‘vivere repubblicano’ nella complessità delle sue articolazioni – è in una crisi radicale, dalla quale non è detto né scontato che possa riaversi. Il Parlamento è diventato il luogo di una guerriglia tra fazioni che tutto hanno a cuore, fuorché il bene del paese, squarciato da una pandemia che ne consuma le fibre più profonde, sprofondando i cittadini in un sentimento di paura e di timore che riguarda il valore primario per ciascuno, la propria vita.
Una situazione che richiederebbe il massimo di unità, di coesione, di capacità di capire, in modo reciproco, le ragioni degli altri. Invece assistiamo ad agguati, azioni di guerriglia, incursioni di bande che spacciandosi per difensori della patria pensano solo al loro particolare, nell’accezione più miserabile del termine. Tutto ciò è reso possibile da un fatto, da cui deriva tutto il resto: si è strappato, nel nostro paese, il vincolo originario, quello che tiene insieme gli individui, trasformandoli in cittadini di uno Stato. Un vincolo che è culturale, religioso, etico, non politico, tanto meno partitico. Il vincolo che nella nostra nazione è costituito dalla Costituzione repubblicana, e dai valori democratici che essa afferma e difende. C’è stata solidarietà di fronte alla pandemia, specie nella prima fase; ma essa derivava da una ragione diversa, più profonda se si vuole: dall’irrompere della morte come orizzonte prossimo e comune di tutti e di ognuno.
Se la destra ha una natura eversiva
3. Che in una situazione di questo genere gli italiani trovino oggi un punto di riferimento nel Presidente del Consiglio, è quasi naturale: appare l’unico punto di equilibrio e di stabilità nella tempesta, l’unico che nonostante tutto faccia seguire alle parole dei fatti, pur senza la tempestività e la completezza che sarebbe necessaria. Si presenta come una sorta di custode della comunità, oltre le differenze di partito. E tanto più lo appare, vedendo quella palude che è oggi la politica italiana.
La destra, in modo scalmanato chiede le elezioni, e non sorprende: in Italia le forze di destra sono state sempre eversive, in nome dello Stato hanno distrutto ogni principio di convivenza liberale o democratica. Tutto va bene pur di arrivare al potere. Se poi ci si arriva nelle macerie, perché preoccuparsi? L’importante è arrivare lì, impadronirsi dello Stato, e per questo tutti i mezzi sono buoni. Se poi un migliaio di bambini affoga in mare, che problema c’è? Sono gli accidenti della storia …
Il capo di Italia viva proclama di essere diverso, dice che vuole smascherare tutti, far vedere i vermi che strisciano sotto la porta del governo, afferma in sedi solenni che vuole restaurare il primato della politica, di cui nessuno più si curerebbe, tranne lui. Queste sono le dichiarazioni programmatiche. Di fatto si serve del manipolo che ha messo insieme, eletto sotto altre insegne, per cercare di tenere sotto scacco il governo, la Repubblica, senza nessuna considerazione della crisi che logora i fondamenti del vivere repubblicano. E perché mai dovrebbe farlo? Si sente un leader, un capo di livello europeo, un ‘apoto’ come avrebbe detto Prezzolini: uno che non la beve, e che è pronto a tutto, anche a far saltare il banco del governo in una situazione come questa, se il suo appetito non viene soddisfatto, e al prezzo che stabilisce lui. Si sente un capo carismatico, e in quanto tale non deve dar conto a nessuno, nemmeno ai suoi fedeli.
Chi ha il dono del carisma deve essere obbedito, seguito, senza discussione, perché è lui che guiderà i seguaci alla Terra promessa. Questo è l’autorappresentazione di se stesso che ha il capo di Italia viva, che perciò non si fermerà di fronte a niente e nessuno. È un «patriota», un «uomo nell’arena», così si è descritto evocando niente di meno Theodore Roosevelt (non Franklin Delano, come si è premurato di spiegare al popolo grosso). Contesterà quindi tutto e tutti: per lui è una questione di identità, di onore, e al tempo stesso – ahimé – di sopravvivenza. C’è un interrogativo che continua a tormentarlo: ma gli italiani hanno capito con chi hanno a che fare? Un grande leader europeo, l’unico in grado di colloquiare con la nuova amministrazione americana, il solo cui Biden abbia dato la mano. Se deve morire – politicamente, si intende – muoia, ma come Sansone: con tutti i filistei.
Il Pd è chiamato a un cimento decisivo
4. Questa è la situazione in cui siamo, e in cui si agita il Partito democratico, che è, al tempo stesso, causa ed effetto di questa crisi. Che fare dunque? Certo – è l’osservazione più ovvia – bisogna spingere il governo Conte a non trasformarsi in una palude trasformistica, come sta accadendo in questi giorni, inducendolo ad affrontare i principali problemi del paese con una energia e una capacità di coinvolgimento sia delle forze politiche che di quelle sociali che fino ad adesso non ci sono state. Se il governo – ed è un’altra osservazione triviale – si limitasse a un lavoro di pura e semplice sostituzione del personale di Italia viva con altra gente raccolta solamente per poter disporre del suo voto, questa sarebbe la via che porta al disastro sia l’Italia che il PD. I partiti, come nascono, muoiono.
In questi giorni il Partito democratico è chiamato a un cimento decisivo. Se si identifica con il Presidente del Consiglio, se non riesce a far sentire nel governo il peso e la voce del paese, se non assume quello delle diseguaglianze come problema centrale con cui oggi è assolutamente indispensabile confrontarsi, se non riesce a configurarsi a livello europeo come un protagonista credibile della nuova Europa – se non riesce a fare tutto questo – meglio chiudere, per il Partito democratico, questa esperienza. E aggiungo, meglio chiuderla il prima possibile. Infatti, più il Partito democratico continua a galleggiare nel governo Conte, più perde voti, credito, più viene meno a quella funzione nazionale che dovrebbe essere propria di un partito nato dal vecchio tronco della sinistra democratica italiana.
Troppe risorse giovani restano inutilizzate
5. Ma – ed è questo che voglio sottolineare – i problemi dell’Italia oggi vanno ben oltre il futuro del governo Conte, oggi è in discussione il destino della Repubblica, del ‘vivere repubblicano’. La domanda che bisognerebbe porsi oggi è appunto questa: che significa oggi essere ‘repubblicani’, essere dalla parte della Repubblica? Cosa occorre fare per restaurare il ‘vincolo’ repubblicano? E per cominciare a rispondere occorre avere chiaro un altro punto, che una sorta di provincialismo alla rovescia ci impedisce a volte di vedere: l’Italia è oggi un paese triste, in declino, ma è stata, e continua ad essere, una grande nazione, dispone ancora di straordinarie risorse intellettuali, civili, anche religiose.
Un solo esempio, a me più familiare: basta frequentare le generazioni più giovani per capire quale deposito di energia, di intelligenza, di creatività ci sia nel nostro paese. La crisi, la decadenza della Repubblica derivano da un altro fatto, che è esploso negli ultimi decenni, e di cui il berlusconismo è stato un fattore dominante: deriva dal fatto che si è interrotta la comunicazione tra queste energie e il vivere politico, istituzionale. Il ‘sistema’ si è prima impoverito, poi bloccato. Sta qui la radice della crisi, in questa stagnazione. Le ‘forme’ si sono staccate dalla vita, che non riesce più a trovare istituti in cui riconoscersi. La vicenda dei 5 Stelle, nel bene e nel male, va inquadrata in questa lunga crisi. Si è incrinata la circolazione delle élites, fondamentale per una società democratica, liberale. Il ricambio sociale si è fermato, come mai era accaduto prima nella nostra storia. Il problema decisivo, per la Repubblica, oggi sta dunque qui: nella necessità di ristabilire questa comunicazione, nel ricostituire in forme nuove i nessi spezzati, nel ristabilire la circolazione delle élites, senza cui una società, un vivere democratico, decade, muore. Sta nel ricostituire il nesso tra liberalismo e democrazia.
Vasto programma, direbbe il vecchio generale. Ma un grande filosofo amava dire che «il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile». È su questo «impossibile» che oggi occorre lavorare, guardando al futuro, ed è a questo che dovrebbe mirare anche il Partito democratico, con le forze di cui dispone. E dovrebbe farlo subito. Se lo spazio in cui muoversi è assai stretto, il tempo a disposizione è pochissimo. Occorre cominciare subito ad uscire dalla palude, evitando decisioni strategiche sbagliate – a cominciare dal restauro del proporzionale che in Italia è sempre stato il terreno di cultura del peggior trasformismo. Se il Pd non assume fino in fondo consapevolezza che, oggi, la questione del tempo – sempre fondamentale in politica – è diventata la conditio sine qua non, e non avvia in tempi rapidissimi nuove iniziative strategiche – che riguardano il fondamento del vivere repubblicano –, lavora per la sua fine, illudendosi di governare il paese. Di governo, e la storia lo conferma, si può morire. E, come ci è stato spiegato dai grandi classici – da Machiavelli a Spinoza – si può morire quando sono «i pochi» a governare.
Quel monito di Emanuele Macaluso
6. Tornando a quanto si diceva all’inizio, l’incancrenirsi della situazione è derivata dalle scelte sbagliate che si fecero nell’estate del 2019 e dal rifiuto di andare allora a votare fidando – e sbagliando – nel ‘beneficio del tempo’ per contrastare la destra. Se ricordo bene fra quelli che allora ritenevano opportuno andare a votare c’era Emanuele Macaluso, venuto a mancare proprio in questi giorni. Vorrei ricordarlo qui per averci insegnato che un partito vive solo e soltanto se diventa ‘funzione’ di un paese, se cioè riesce a interpretare e a risolvere sul piano politico i problemi fondamentali della Nazione: in concreto se riesce a ristabilire i fondamenti del vivere repubblicano. È una lezione che il PD non dovrebbe dimenticare se non vuole limitarsi a galleggiare e a sopravvivere.
Macaluso diceva però anche un’altra cosa: che la politica oggi è morta. Aveva ragione, e le giostre di questi giorni lo dimostrano. Ma non è detto che questo debba essere il nostro destino: senza politica governano solo i ‘pochi’ e il vivere repubblicano non potrebbe avere più futuro. La politica, come già ampiamente accade, sarebbe dominata e infine distrutta dall’amministrazione e dalle forme di dispotismo, anche democratico, che le sono connesse.
Il partito democratico è di fronte a scelte difficili; ma prima di decidere ‘che fare’ dovrebbe riflettere sul proprio destino e sul destino della società italiana e su come riuscire ad intrecciarli – se ne è capace –. Sarà possibile? Dalla risposta che intende dare alla domanda dovrebbero derivare anche le scelte da fare in questa crisi.
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