L’Afghanistan mette in luce
le debolezze della Nato
e la necessità di una sua riforma
Insieme con il dolore e l’angoscia per quanto dovrà ancora accadere le immagini dell’aeroporto di Kabul in questi giorni e in queste ore ci trasmettono un’incertezza profonda che riguarda anche noi. Noi, quella parte di opinione pubblica prevalentemente europea che si era consolata, negli anni scorsi, con l’idea che Donald Trump fosse una sciagurata parentesi che, infatti e non per caso, si era chiusa con la fine nell’ignominia del suo primo e ultimo mandato. Con il susseguirsi di conferenze stampa sempre più imbarazzate, il suo successore ci ha trasmesso la forte impressione che le cose non stanno così. Che, per dirla con la rozza semplicità degli slogan, “America First” non era la deviazione malata di un uomo arrivato al vertice del potere americano per un brutto scherzo della storia, ma una costitutiva sostanza della politica americana. Anche se Joe Biden, che era stato costretto in buona misura a viaggiare sui binari fissati dal suo predecessore con i vergognosi accordi di Doha, ha fatto qualche goffo tentativo di riparare i guasti dell’unilateralismo delle scelte compiute con il ritiro promettendo coinvolgimenti e consultazioni, la verità pare proprio essere questa. Il dialogo che non c’è stato nei momenti cruciali sarà molto difficile anche nel “dopo”, tant’è che siamo stati portati un po’ tutti a considerare uno sviluppo positivo, che ci ha fatto tirare il fiato, il fatto che nella riunione virtuale del G7 il capo della Casa Bianca abbia “accettato” di partecipare alla riunione del G20 proposta da Mario Draghi, nome della presidenza di turno italiana del gruppo. Che è come dire che l’assenso degli Stati Uniti non era affatto scontato.
Ha ancora senso la Nato?
La realtà è questa, drammaticamente semplice: intorno all’aeroporto di Kabul la comunanza degli interessi tra gli Stati Uniti e i loro alleati su questa sponda dell’Atlantico che tutti pensavano fosse stata restaurata dal presidente democratico dopo il distacco degli anni di Trump si è dimostrata una finzione retorica. Quello che per decenni è stato considerato un fantasma da esorcizzare, il cosiddetto decoupling, s’è dimostrato un fatto con una sua durissima sostanza. Che conseguenze dovrebbero trarre gli europei da questa verità? La prima, la più urgente riguarda la Nato, la sua stessa esistenza. Con la scelta dell’amministrazione Usa di procedere da sola, senza e in qualche modo contro gli interessi e le intenzioni dei partner, l’alleanza è stata sottoposta a uno stress micidiale. Certo, è probabile, pur se non del tutto scontato, che nel prossimo futuro si cercherà di limitare i danni e di ricucire, ma sarà tutt’altro che facile, a cominciare dall’atteggiamento che Washington e le cancellerie del vecchio continente adotteranno nel G20 nei confronti degli “altri”, i grandi interlocutori nello scenario del disastro afghano: la Russia, la Cina, l’India, e poi il Pakistan e forse l’Iran.
Il fatto è quel che è accaduto in Afghanistan rischia di mettere a nudo un cumulo di tensioni già esistenti nell’alleanza e di contraddizioni molto difficili da superare. Va ricordato che, a differenza di quanto sarebbe poi avvenuto per la guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein, l’intervento contro il paese del mullah Omar fu decretato con una doppia chiave: l’articolo 5 del Trattato Nato, che impegna gli stati membri ad intervenire al fianco di un partner aggredito, e una risoluzione dell’Onu che, come era accaduto in altre occasioni, di fatto delegava all’apparato militare dell’alleanza atlantica una missione di sicurezza internazionale che in teoria sarebbe stata compito di una forza super partes che l’organizzazione delle Nazioni Unite, così com’era (e com’è ancora) non era assolutamente in grado di assicurare.
Le ambiguità della missione
Questa ambiguità ha caratterizzato tutta la missione in Afghanistan. Da un lato c’era l’obiettivo, perseguito soprattutto dagli americani, di garantire la sicurezza degli Stati Uniti contro il terrorismo combattendo i suoi sponsor e il mare di complicità, anche solo culturali, in cui navigava, dall’altro c’era l’intenzione, prevalentemente da parte degli europei, di creare le condizioni di uno sviluppo civile per gli uomini e (soprattutto) le donne di quel paese. Non “esportare la democrazia”, secondo la retorica insieme ingenua ed arrogante di certo ideologismo americano (non solo di destra, anzi spesso più democratico che repubblicano), ma costruire le condizioni perché fossero garantiti rispetto e sviluppo dei più elementari diritti, anche sociali. Obiettivi che molti, giustamente, rivendicano essere stati in parte raggiunti, pur nella tragedia in atto in questi giorni e che forse, si può sperare, costituiscono la base per una resistenza al regime dei talebani.
L’ambiguità della missione è precipitata in una devastante chiarezza nel disastro della sua conclusione. Biden l’ha ammesso con sincera brutalità: non eravamo andati a costruire la nazione afghana, ma a proteggere gli Stati Uniti dal terrorismo e quindi – sostiene, ma è tutto da vedere quanto sarà vero – il nostro obiettivo lo abbiamo raggiunto.
Quella che il disastro afghano ha messo in luce così tragicamente non è, però, l’ambiguità solo di questa missione. È piuttosto il prodotto di due caratteristiche negative che la Nato si porta appresso almeno da quando, caduto il blocco sovietico, si è trovata ad essere l’unica alleanza militare di stati in Europa e tra l’Europa e l’America del Nord. La prima è lo squilibrio dei poteri al suo interno. L’apparato militare è saldamente controllato dagli americani: in nessuna altra parte del mondo gli Stati Uniti sono rimasti superpotenza quanto dentro la Nato. Questo squilibrio poteva considerarsi obbligato finché la guerra fredda opponeva all’Occidente la superpotenza sovietica, con armi e potenziale aggressivo che dovevano essere contrastati a un livello che soltanto l’altra superpotenza possedeva, ma oggi è difficile da accettare e da gestire senza tensioni. Si pensi, solo per fare un esempio, a quali difficoltà (e anche pericoli) possa portare la presenza dentro l’alleanza di un paese, la Turchia, che persegue politiche indipendenti e spesso in contrasto con quelle di tutti i suoi partner nell’alleanza.
La seconda caratteristica negativa della Nato è la tendenza a considerare il sistema politico dei suoi stati come l’unica legittimità politica possibile al mondo: la logica che soggiace all’idea di ”esportare la democrazia”. C’è anche questa logica sotto una certa aggressività che la Nato, soprattutto per iniziativa degli americani, ha messo in luce nell’espandere la sua area ben al di là dei limiti geografici che in Europa erano stati concordati con l’Unione sovietica di Gorbaciov al tempo dell’unificazione tedesca. I timori degli ex paesi satelliti del blocco sovietico verso il potente e spesso prepotente grande vicino erano certo giustificati, ma bisognava trovare il modo di superarli con altri sistemi e altre garanzie piuttosto che integrarli nel sistema militare e riempirli di armi. L’avanzata verso l’Est non solo ha suscitato le paure della Russia e spinto i suoi dirigenti, a cominciare da Putin, a condurre politiche aggressive verso i vicini, ma ha contribuito a rafforzare gli aspetti nazionalistici e neo-imperiali del regime e le sue politiche antidemocratici all’interno.
Ripensare il funzionamento dell’Ue
Vedremo come si svilupperà, ora, il conflitto tra gli europei e gli americani che la crisi afghana ha oggettivamente aperto. Biden sembrerebbe sinceramente intenzionato a “fare la pace” riprendendo il dialogo che nelle fasi concitate dei giorni passati è drammaticamente mancato. Però sarebbe opportuno che gli europei considerassero che le difficoltà esistevano da prima del loro precipitare tragico intorno all’aeroporto di Kabul e che si desse il via a una riflessione seria sulla Nato. Ha ancora senso un’alleanza militare di blocco in un mondo in cui i conflitti sono diffusi e gli intrecci degli interessi contrapposti sono molto più complicati che lo schema “paesi liberi” contro dittature? Un mondo in cui il discrimine della accettabilità democratica passa non tanto (o almeno non soltanto) sull’esistenza di istituzioni simili a quelle che l’Occidente ha costruito nel corso di secoli quanto piuttosto sul rispetto o meno dei diritti umani fondamentali, quelli universali codificati nella Carta dell’Onu?
Una riflessione sulla necessità stessa dell’esistenza della Nato, o comunque, e intanto, di una profonda revisione delle sue strutture di potere e di comando militare avrebbe un serio fondamento solo se l’Unione europea proseguisse con molta più decisione e più coraggio sulla via dell’integrazione. Un discorso lungo, del quale diamo qui soltanto un cenno, colorato di un pizzico di ottimismo. Il presidente del Parlamento europeo David Sassoli ha detto, nei giorni scorsi, che in merito alla difficile e dolorosa questione dei profughi afghani che arriveranno nei paesi europei stavolta non verrà fatto valere il principio della unanimità nelle decisioni del Consiglio europeo. Chi segue le vicende europee sa quanto sia importante per la costruzione di una Unione davvero integrata la battaglia perché le decisioni politiche possano essere prese a maggioranza. Pare che anche la Commissione sia orientata come Sassoli. La possibilità di mettere all’angolo i sovranisti ungheresi, polacchi, slovacchi e austriaci su decisioni che esprimono così compiutamente i valori dell’Europa come l’accoglienza di chi sfugge alla dittatura dei talebani sarebbe un segnale davvero importante. Una bella lezione a quelli che gridano “Prima i Nostri”.
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