L’addio di Theresa
una parabola
dei tormenti europei

Alla fine Theresa May ha dovuto arrendersi. Si chiude in un arco – relativamente breve – la sua stagione, iniziata con la Brexit e finita ingloriosamente al punto di partenza. Senza un accordo sull’uscita dalla Ue, con un partito ancora più lacerato e ormai ridotto all’ombra di se stesso e un Paese in mezzo al guado, che è andato alle urne nella più surreale delle elezioni tre anni dopo aver detto no all’Unione Europea.

May lascia vittima del mostro Brexit che non ha saputo imbrigliare, circondata ormai solo da nemici, anche i più fedeli ormai pronti a voltarle le spalle. E gli altri dei suoi in rimonta, quelli che come Boris Johnson si sono nominati paladini di un’uscita spavalda e maschia, pronti a raccogliere la spada sicuri di poterla affondare nel cuore dell’Europa senza esitazioni e senza pagare pegno. Theresa May non poteva far altro che lasciare, con le lacrime agli occhi e parole d’orgoglio – lei, la seconda donna alla guida del Regno Unito dopo Margaret Thatcher, “di certo non l’ultima” – ma con il rimpianto di non essere riuscita a portare a termine l’impresa.

E adesso non è difficile elencare tutti gli errori della premier britannica, che uscirà di scena il 7 giugno prossimo, una volta ricevuto il presidente Trump in visita a Londra e adempiute le formalità in attesa del suo successore. La stampa, i critici, i compagni di partito, gli avversari sgranano un rosario di passi falsi. May ha sbagliato. Troppo tenera con la Ue (come le rimproverano i brexiters Tory e non), troppo poco trasparente nel gestire una trattativa che faceva capo a lei personalmente, senza coinvolgere nemmeno tutto il governo, figuriamoci i laburisti o quella parte non secondaria del Paese che aveva votato per restare in Europa (48,1% contro il 51,9). Troppo irruenta nell’invocare l’articolo 50, il meccanismo che ha dato il via al ticchettio dell’orologio, segnando la data per l’uscita. Troppo prudente, tanto da chiedere a Bruxelles ben due rinvii, una volta assodato che il “suo” piano per la Brexit non sarebbe mai passato.

May ha sbagliato. Punto. Ha sbagliato a credere ai sondaggi nel 2017, andando alle urne per vincere ed uscendo sonoramente pestata. Ha fatto e disfatto, provato a fare una Brexit in salsa Tory, poi tinta di Labour. Ha dovuto ingoiare che il Parlamento si riprendesse voce in capitolo, ha persino ipotizzato un secondo referendum per venire incontro ai laburisti, che invece hanno seguito un’altra strada, non meno ambigua, anche loro divisi al loro interno e, secondo i sondaggi, a rischio retrocessione dietro ai lib-dem, europeisti senza se e senza ma.

Theresa May ha sbagliato sin dal primo istante, quando da tiepida remainer ha accettato di guidare il Paese in quella che – era chiaro – non sarebbe stata una passeggiata, infilandosi nel pasticcio che David Cameron aveva creato convinto di riuscire a stuzzicare l’euroscetticismo britannico senza farsi del male. E ora che i Tory sono accreditati di un misero 10 per cento e l’ex Ukip Farage ha messo su in un batter d’occhio un partito ad hoc per le europee e conta di incassare il 30% dei voti, quello che rimane guardandosi alle spalle è un terreno pieno di macerie, un mare in tempesta dove si naviga senza bussola. E nessuno sa bene che cosa accadrà, che cosa potrebbe accadere. Eccetto Farage, forse, che non si pone troppe domande e ripete il mantra del fuori comunque, e vada come deve andare. Anche a costo di mandare in malora gli accordi di pace in Irlanda del nord e anche il resto.

La parabola di Theresa May e della Brexit, a voler cercare un senso, sembra essere il riflesso dei tormenti europei. Non si può stare dentro e fuori dalla Ue, prendere il meglio e lasciare gli scarti ad altri, incassare i fondi europei e sputare nel piatto dei diritti, invocare collaborazione sulla crisi migratoria e voltare le spalle agli altri. Chiedere ordine nei conti altrui e chiudere gli occhi sui propri, anche se segnano un surplus commerciale eccessivo.

Tre anni dal voto sulla Brexit hanno avuto almeno questo merito, di mostrare che non basta sbattere la porta, o i pugni sul tavolo. Che è più facile dire “prima noi” che non trovare un accordo, comunque necessario. Che il populismo – non era forsec questa la scommessa di Cameron? – è corto di comprendonio ma veloce di gamba, e per questo è difficile far ritornare nella lampada il genio, una volta che è uscito fuori. In tre anni appare anche più chiaro che l’Europa avrà sì tanti difetti, ma non è poi così semplice tagliare i ponti e pensare di fare meglio da soli.

May lascia e fa appello alla necessità di fare compromessi, perché “compromesso non è una brutta parola”. E’ quello che non vogliono i brexiters alla Boris Johnson, in pole position come prossimo leader tory, sia pure di un partito sbriciolato. Se toccherà a lui tentare dove May ha fallito bisognerà vedere quale sarà in conclusione il punto di caduta. Quello che è certo è che alla fine Londra dovrà decidere che cosa vuole e come arrivarci. Come tutta l’Europa chiamata alle urne, del resto.