L’ultimo concerto italiano di Joan Baez
che ha suonato scalza a casa mia

A dire il vero, è da un po’ che mette le mani avanti. Un anno, o giù di lì. “Basta, chiudo con i concerti e anche con i dischi”, così dice Joan Baez, “l’usignolo di Woodstock” con veloce intermittenza, da mesi. E smetterà, vuoi perché è donna forte e di parola, ma soprattutto, perché pur continuando ad amare la propria voce, non le pare più adatta ad interpretare il suo infinito repertorio che di ottave ne inghiotte più di quante l’età ne consenta. Considerevole età che ospita una sessantina d’anni di palchi gloriosi.

Canto e militanza

Baez e DylanIn questa sua stringata dichiarazione di addio, Joan aggiunge che proprio sui palchi non si sente più a suo agio. Par di capire che sia attivo anche un movente psico-fisico nel saluto alle grandi masse popolari che l’hanno seguita lungo un arco sterminato di tempo, tra le mille onde della storia alle quali ha legato arte e presenza, canto e militanza nel pensiero di liberazione, contro ogni illiberalità, contro ogni bieco uso dell’umanità da parte del potere.

Così, non c’è marcia per la pace, contro la guerra, contro la discriminazione razziale, contro apartheid e sottomissione che non l’abbia vista, dal flagello del Vietnam in poi, in prima fila, cantando come sapeva fare solo lei. Da New York a Washington e altrove, nel mondo, dove c’erano da affermare diritti e libertà, sempre cantando, voce e chitarra acustica, per decenni, accanto a Martin Luther King e a tutti i liberatori, i coraggiosi.

L’ultimo palco italiano

Del resto, era ancora una ragazzina che sapeva già molto di sé quando si rifiutò di partecipare ad una esercitazione di guerra simulata che aveva coinvolto la sua scuola. E in Usa queste scelte si pagano con un marchio di anti-patriottismo che non ti togli più di dosso. Poi, l’amore per Bob Dylan, e per la sua arte.

Queste due notevolissime bandiere artistiche e culturali di ben più di una generazione se ne stavano chiusi in una stanza: lui si metteva al tavolo e scarabocchiava testi; Bob rileggeva, accartocciava la pagina e la spediva nel cestino, una due tre dieci volte. Lei, con infinita pazienza recuperava quelle pallottoline di carta scritta, le stirava e cominciava così, da quel cestino, il lavoro di recupero di pagine musicali spesso immortali.

Molti pezzi di Dylan li ha cantati anche lei, per poi dedicare all’amore degli amori il suo brano più celebre, e magari anche più bello, “Diamonds & rust”, che diede il titolo ad un disco di enorme successo. Ora, mentre Joan dà l’addio ai palchi, alla vigilia del suo ultimo concerto italiano, il 19 luglio, nel parco della Certosa di Collegno, mi pare venuto il tempo di raccontare quel che so di lei, quel che ho scambiato con lei.

Duetto al telefono

Tour d'addio di Joan BaezSon lì, anni fa, che scorro gli appuntamenti romani con la musica. Ed ecco che all’Auditorium, scopro tardivo, il giorno dopo ci sarà un concerto di Joan Baez. Non posso perderlo, e mi attacco al telefono: “Furio – sparo senza preamboli – domani sera c’è Baez a Roma, io vado, prendo i biglietti per te e Alice?”. “Ma, adesso vediamo, controllo gli appuntamenti, aspetta… dammi un secondo… ma intanto visto che ci sei, ti lascio al telefono con una persona amica che sarebbe felice di conoscerti, le ho parlato di te, fammi una cortesia, dille qualcosa…”.

Ma no! Furio, non conosco, cosa vuoi che dica, non farlo, odio queste cose… ma ha già passato la palla e c’è questa bella voce di donna che mi parla in inglese – che non so bene quanto richiede una buona conversazione – e mi racconta d’essere amica di Furio Colombo, felice di conoscermi, “tu sei Toni Jop, io sono Joan Baez”.

Frano, non poteva andar peggio: cosa cavolo vuoi che dica all’improvviso a Joan Baez? Stronzate, e infatti le dico: ma che bello conoscersi, e che lei mi piace tanto e da tanto… Una pena. Racconta che ha un concerto in programma a Roma – ma guarda… – e che Furio la sta aiutando a tradurre un pezzo… che canterà Here’s to you, la celeberrima ballata dedicata a Sacco e Vanzetti, con testo, casualmente, di Furio Colombo che con lei ha coltivato un lungo periodo di sodalizio.

Inizia a cantarla, al telefono, io la seguo e intono con lei, non una strofa, ma tutta intera, così che mi piace pensare d’essere il solo umano ad aver duettato con Joan Baez al telefono, che sul palco sono buoni tutti, perfino Dylan. E questa è una.

Pasta al sugo e piedi scalzi

Più avanti, capita che questo mio fraternissimo amico mi avvisi: Toni, alla cena di sabato a casa tua posso portare una signora? Furio non fare il furbo: stai parlando di Joan? “Ecco, sì, ma forse solo forse, anzi magari no…”. Che si doveva fare? Comunque fossero andate le cose, solo un irresponsabile avrebbe lasciato cadere l’annuncio, con tutte le riserve del caso.

Quindi, chiamo un altro fratello della Costa, Andrea Satta, leader dei Tetes de Bois e chiedo consiglio. Andrea è un saggio: Toni, mi pare bene che ad ogni modo ci sia a casa tua ciò che serve, e cioè una tastiera amplificata, ma la teniamo di là, nascosta, eventualmente sempre pronta, con un piccolo impianto voce. Chitarre senza problema, ma tastiera in agguato, pronta a dire: passavo per caso… Tra l’altro, fosse arrivata sarebbe accaduto dopo un concerto e chi l’ha detto che una stella abbia voglia di cantare ancora, o anche solo voglia di sentire musica?

Andò così: l’ultima notizia da Colombo sembrava annunciare una disdetta del grande incontro, ma poco male, c’erano, e di sicuro, il caro Paolo Pietrangeli, Andrea con Angelo Pelini – magnifico tastierista dei Tetes e magnifica persona che nel pomeriggio aveva intanto montato tastiera e impianto voce, in altra stanza -, Sandro Moro, leader del mio gruppo, the Spleen, e gran chitarrista… poi, Nicoletta Braschi e Roberto Benigni che ha una bellissima voce e quando canta fa sciogliere i ghiacciai.

Suonò il campanello, il tempo dell’ascensore… io cucinavo per una banda di musicisti come spessissimo… con le mani odorose di pomodoro fresco mi affacciai e nella luce della porta si stagliò l’incredibile figura di Furio Colombo – accanto ad Alice Oxman – con una custodia massiccia di chitarra in mano, il più elegante di tutti i musicanti del mondo. Sarebbe bastata questa immagine per fare della serata un passaggio da ricordare per sempre, ma stava succedendo qualcosa, e infatti, pochi passi più dietro si stava formando nell’ombra la sagoma di una bella signora coi capelli corti e bianchissimi, felice, quando fu il momento, di togliersi le scarpe per entrare in casa. Come tutti gli altri, calze ai piedi e basta. Lei, senza.

Inni di resistenza

Baez e M. L. KingFaceva un bell’effetto: dalla prima fila delle marce per la pace e antisegregazioniste di inizio anni Sessanta che hanno spostato la storia del mondo, dai cestini di Bob Dylan che hanno cambiato la storia della popular music, a quell’innocente profumo di pomodori e basilico nel cuore di Roma. Allegra, simpatica, intelligente, volitiva, bella e quella sua chitarra storica affidata alle mani di Colombo.

Le piaceva la mia pasta al pomodoro fresco, ma non credo per questo, o forse sì, dopo che Paolo aveva intonato, Andrea e Angelo anche, eccola imbracciare quella chitarra, sedersi e iniziare a cantare. Come fosse stata la compagna che avevamo tolto, con il suo strumento, da un angolo della strada pregandola di suonare qualcosa a casa nostra, dove c’era anche qualcosa di mangiare e da bere.

Il fatto è che ha cantato dodici, tredici pezzi, non un paio, intercalando i brani di Pietrangeli, dei Tetes de Bois e di Moro. Compreso “Diamonds and Rust” – versione davvero tremenda per intensità più che nell’originale inciso – e tanti altri suoi grandi successi.

Brutta parola “successi”, nel caso converrebbe dire “inni” di resistenza e di lotta, suoi, di Pete Seeger e di altri autori che hanno marcato la storia. Furio Colombo riferisce che in questi mesi Joan si è messa a caccia scartabellando nella produzione recente di tanti bravi cantautori: vuol trovare qualcosa, un brano che abbia la forza di interpretare questo tempo con la vitalità e la rappresentatività necessarie per diventare un “inno”, così come lo sono stati “We shall overcome” che lei ha cantato per Martin Luther King a Washington nella grande marcia per i diritti nel ‘63, o “Where have all the flowers gone?” o “Blowin’ in the wind”.

Chissà com’è andata a finire, pare difficile. Quella roba c’è o non c’è. Intanto, Joan fa sapere che smesso il canto continuerà ad esprimersi con la pittura.