La solita storia
in bianco e nero

È la vecchia abitudine di chi comanda. Appena alzi la testa, vorrebbe bastonarti. I ragazzi senegalesi cercano di vivere come persone normali, ora che la legge offre loro qualche possibilità. Escono dal buio. Non si nascondono più. Ritorna il desiderio di ballare, di frequentare ragazzi e ragazze. Ora c’è persino una discoteca, che sembra fatta apposta per noi, dove si suona musica africana, e dove la sera capita spesso di ritrovarsi. Mi sembra un sogno. È bello parlare. È bello che una ragazza italiana venga a trovarmi, mentre sto a vendere in metropolitana, che si possa scherzare, ridere, scambiare opinioni alla luce del sole.

A molti questo non piace. Hanno una idea inconfessabile ma ben radicata: noi poveri dobbiamo stare al nostro posto, che è un posto molto basso e isolato. Non vedono di buon occhio che le ragazze italiane si fermino a chiacchierare con noi. Quando i poliziotti scendono nel metrò per le loro retate e per i loro sequestri le apostrofano così: “Voi siete italiane, che cosa ci fate con questi?”. Capita qualcuno che si ferma ad ascoltare quello che si dicono un ragazzo senegalese e una ragazza italiana. Il ragazzo senegalese deve mettersi a gridare: “Che cosa volete? Che cosa fate qua?”. Il nostro curioso è pronto a rispondere: “E voi che cosa ci fate qua? Questo è il mio paese e ho il diritto di stare dove mi pare”.

Quando i carabinieri sono venuti a Cassano in cerca di droga, si sono meravigliati che avessimo la televisione e il telefono. Quando hanno visto i nostri documenti italiani hanno protestato: “Ma dove volete arrivare? Siete voi i nuovi padroni? Sono pazzi a riconoscervi tutti questi diritti”. Appena la nostra vita è un po’ migliorata, molti si sono irritati, altri spaventati.

Decido intanto di cambiare mestiere. Per quanto sia stato un bravo venditore, non ho mai avuto una grande passione per questo mestiere. Divento così operaio, anzi apprendista. Ho saputo di un elettricista che cercava un aiuto e sono diventato anch’io elettricista, dalle parti di piazzale Loreto. Una sera, verso giugno, ho un appuntamento con l’amico Moussa, che vende ancora sotto la metropolitana. Ci sarà anche la sua ragazza italiana. Andremo insieme a cena dalla sorella di lei. Sto aiutando Moussa a raccogliere la merce, quando si presenta un signore in borghese con una stecca di sigarette in mano:

“Prendi la tua roba e vieni con me”.

L’amica di Moussa interviene, protesta, chiede spiegazioni.

“Sono un agente della guardia di finanza. Questo deve seguirmi”.

La ragazza insiste: “Questo è un sopruso, è una vergogna!”.

“Lei non c’entra: è solo lui che deve venire con me”.

“No, io c’entro e protesto per…”.

“Una ragazza italiana con questi individui! Se ne vada…”.

I ragazzi che si sono raccolti attorno, se ne escono con un sonoro “oohh”, come se il nostro finanziere avesse segnato un gol. Lui si incazza: “Avanti, andiamo!”.

Io li seguo.

“Che cosa fai?”.

“Siamo insieme: vengo anch’io”.

Un marocchino approfitta della situazione. Il bravo finanziere gli aveva sottratto la stecca di sigarette senza verbalizzare il sequestro. Il marocchino è magro e svelto e mentre il finanziere si palleggia tra le mani la scatola, lui l’afferra al volo e scappa via. La gente applaude. Il finanziere rincorre il marocchino con la pistola in pugno. Il pubblico scoppia a ridere. Sembra tutto finito. E invece, dopo una decina di minuti, eccolo riapparire alla testa di un esercito di finanzieri armati di mitra e pistole. I ragazzi se la danno a gambe. Rimaniamo io, la ragazza e Moussa. Il finanziere paonazzo ci indica: “Sono stati loro. Stavo sequestrando delle sigarette e loro mi si sono fatti intorno, hanno fatto scappare il marocchino”. I suoi colleghi si scagliano contro di noi:

“Bastardi. Volevate picchiare il nostro amico. Ma non la passate liscia. Ve la faremo vedere noi”. E poi insulti, spinte. E noi:

“Rispettate i nostri diritti, è tutto falso”.

Gli altri ragazzi, nascosta la merce, ritornano e gridano in coro: “Bugiardi, bugiardi!”. Nella stazione del metrò il frastuono è infernale. Arrivano altri carabinieri e altri poliziotti. Afferrano oltre a me anche Moussa, la sua ragazza e due amici che si erano fatti. avanti per testimoniare. Poi cambiano idea. Si accontentano di me e di Moussa. Ci portano in caserma. Il trattamento continua:

“Bastardi, volevate picchiare il nostro amico! Mascalzoni!”.

Rispondo che non è vero, che sono solo menzogne. Tutti protestano. Io protesto. Moussa protesta. Arriva la ragazza di Moussa e protesta. I finanzieri protestano. Ma lo mettono per iscritto. Secondo loro, noi volevamo impedire un sequestro, salvare un marocchino e picchiare un finanziere. Non citano la ragazza di Moussa come testimone. Ci sbattono a San Vittore per tre giorni.

Store di questo genere ne abbiamo vissute io e tanti altri, solo perché ci rifiutavamo di chinare la testa. I sindacati italiani potrebbero fare di più per noi, per i nostri diritti. Per la casa, ad esempio. Perché non riesco ad avere una casa se mi presento con le carte in regola, un posto di lavoro fisso, i soldi in mano? Perché non ho una casa, anche se leggo scritto “Affittasi”?

Questa è la vita di un senegalese, la vita che conosco da un tempo che mi pare lunghissimo. Molti ragazzi stracciano i loro permessi di soggiorno e tornano in Senegal. Molti restano e conoscono delle ragazza italiane. Si innamorano. Ci sono matrimoni, e poi anche separazioni e divorzi. E poi ancora altri matrimoni. Nascono bambini.

(Pap Khouma, “Io, venditore di elefanti. Una vita per forza fra Dakar, Parigi e Milano”, a cura di Oreste Pivetta, 1990)