“La sera ci vedevamo in sezione”, passato
che parla anche al nostro presente
“La sera ci vedevamo in sezione” ci riporta indietro negli anni, all’epoca in cui la sinistra, e il PCI in particolare, si affermava come movimento di popolo e al tempo stesso come alternativa di governo a Roma e in Italia.
Pino Bongiorno di quell’epoca descrive la vita quotidiana di coloro che componevano la mitica “base comunista” e il loro ritrovarsi in sezione, la sera, per discutere e organizzare il lavoro politico. E sceglie l’osservatorio particolare di un quartiere popolare come Villa Gordiani. Il suo quartiere, la sua sezione.
Che cosa emerge da questo lavoro di ricerca e di ricostruzione? Emerge innanzitutto un legame inscindibile tra la dimensione ideale e valoriale che motivava l’impegno dei militanti e la testardaggine con la quale si impegnavano nella soluzione dei problemi concreti del quartiere. Non si predicava il sol dell’avvenire, si lavorava sodo per migliorare, giorno dopo giorno, le condizioni di vita delle persone. E lo si faceva bandendo ogni settarismo. Al Pci si era legatissimi, ma si cercava sempre di andare oltre i confini di partito e di coinvolgere altri con spirito unitario. E così anche a Villa Gordiani nascevano il comitato di quartiere, il comitato antifascista, l’Assemblea delle donne, l’associazione sulle tossicodipendenze, i Comitati Unitari degli studenti. Era la “democrazia partecipata”, come la chiama Bongiorno.
Il contrario del populismo
Insomma, non ci si sentiva un’avanguardia che deve dirigere il popolo, ci si sentiva popolo che si organizza. E questo anche grazie a forti personalità, uomini e donne, che nel libro vengono nominati con cura, capaci di rappresentare e dare voce alle istanze dei cittadini. Erano i “capipopolo” senza i quali il Pci non sarebbe mai diventato, soprattutto a Roma, un partito di massa.
Populisti, li chiameremmo oggi? L’esatto contrario. Erano politici raffinati anche se non avevano un diploma, e non si perdevano in chiacchiere: finché i problemi non si risolvevano non mollavano la presa e nel quartiere erano rispettati e benvoluti da tutti.
E poi, la cultura. Nei locali di Viale della Venezia Giulia e nelle belle serate alla Festa de l’Unità al Parco di Villa Gordiani intervenne una nutrita schiera di intellettuali e i maggiori cantautori italiani. Questa spinta al rapporto con la cultura di massa-nel decennio di Renato Nicolini -venne in particolare da quella che nel suo libro Pino Bongiorno chiama “una nuova leva di giovani comunisti”, coraggiosi e innovativi.
Consiglio vivamente la lettura di questo libro, non solo perché descrive un pezzo importante della storia moderna di Roma e della sua periferia, ma anche perché aiuta a smentire una serie di luoghi comuni, che sono ancora duri a morire, sulla vicenda che considero felicemente anomala del Partito Comunista Italiano.
L’arma della critica
Il primo luogo comune si chiama “ideologia”. Per i critici più grossolani della storia del Pci, gli iscritti e i militanti avevano gettato il cervello all’ammasso e rispondevano soltanto ad un’ortodossia ideologica che calava dall’alto, per essere ripetuta a pappagallo in ogni occasione. Ma le cose non stavano affatto così. Intendiamoci: ci si sentiva parte di un campo di forze, di un movimento internazionale e si cercava sempre di interpretare i fatti del mondo secondo una visione che restituisse senso a quel che accadeva. Ma, proprio perché si cercava giorno dopo giorno di leggere una società – allora – in continua trasformazione, l’arma della critica era il sale di ogni discussione. Sull’Unione Sovietica e sul compromesso storico, sui movimenti femministi e sui diritti civili, i dibattiti erano appassionati e accesi.
Poi è arrivata la cosiddetta “fine delle ideologie”, che altro non è stata che la fine del pensiero critico. Ed è accaduto quello che qualcuno paventava dicendo “Il risultato della fine delle ideologie non sarà che la gente non crederà più a nulla, ma che sarà pronta a credere ad ogni cosa le venga ben raccontata”.
L’altro luogo comune, che si lega al primo, è sul cosiddetto “centralismo democratico”, decritto come l’obbedienza pigra e supina della base ai vertici. Obbedienza? Quando dirigenti e funzionari di partito andavano a tenere le assemblee di sezione, dovevano sudare sette camicie per tenere testa alle obiezioni e alle critiche dei militanti “di base”, anche perché non erano quasi mai critiche improvvisate e campate in aria, ma il frutto di reali esperienze di vita e di lavoro.
Tutto questo e molto altro, troviamo dentro le 180 pagine di “La sera ci vedevamo in sezione” a quasi cento anni dalla nascita del Pci. E non è un’operazione nostalgia. È un servizio che si rende a chi crede ancora oggi in una politica pulita, onesta e ricca di passione civile.
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