La scuola d’élite si tinge di nero
Qui s’impara ben poco e noi ragazzi dell’Istituto Benjamenta non riusciremo a nulla, in altre parole, nella nostra vita futura saremo tutti qualcosa di molto piccolo e subordinato. L’insegnamento che ci viene impartito consiste sostanzialmente nell’inculcarci pazienza e ubbidienza. Da quando mi trovo qui all’Istituto Benjamenta, sono già riuscito a diventarmi enigmatico. Mi sono sentito anch’io invadere da un senso strano, finora sconosciuto di contentezza.
Andiamo vestiti in uniforme: ebbene, questa circostanza di portare un’uniforme ci umilia e nello stesso tempo ci esalta. Abbiamo l’aspetto di uomini non liberi, e ciò può essere una mortificazione; ma abbiamo anche un aspetto elegante. A me, per esempio, il vestire l’uniforme riesce assai piacevole, dato che sono sempre stato incerto su come vestirmi. Ma anche questo mio aspetto mi riesce per ora enigmatico. Forse in fondo a me c’è un essere estremamente volgare. O forse, invece, ho sangue azzurro nelle vene. Ma una cosa so di certo: nella mia vita futura sarò un magnifico zero, rotondo come una palla.
Durante le lezioni noi scolari stiamo seduti con lo sguardo fisso in avanti, immobili. Non è nemmeno permesso, credo, soffiarsi il rispettivo naso. Le mani posano sulle articolazioni delle ginocchia e restano invisibili per tutta la durata della lezione. Le mani sono la prova a cinque dita della vanità e della cupidigia umana: perciò è bene che se ne stiano nascoste sotto la tavola. I nostri nasi di scolari sono tutti spiritualmente rassomiglianti: tutti sembrano tendere più o meno verso l’alto, là dove aleggia la visione consapevole della confusione propria della vita. I nasi degli alunni dovrebbero essere camusi e rincagnati: così prescrivono i regolamenti che tutto prevedono; e in realtà, l’intero consesso dei nostri strumenti olfattivi presenta un profilo umile e pudibondo, come mozzato da affilati coltelli.
I nostri occhi contemplano sempre un vuoto riempito di pensieri, e anche questo è conforme al regolamento. Per vero dire, bisognerebbe non aver occhi affatto, perché gli occhi sono sfacciati e curiosi, e la sfacciataggine e la curiosità sono, quasi sotto ogni sano rispetto, degne di condanna. Piuttosto divertenti da osservare sono poi gli orecchi di noi allievi. Sono così tesi nello sforzo d’udire, che osano appena ascoltare. Sussultano sempre un po’, quasi temessero che una mano ammonitrice li afferrasse da dietro e li tirasse in lungo e in largo. Poveri orecchi, sempre in preda a una tale paura! Quando il suono di un richiamo o di un ordine li colpisce, si mettono a vibrare e a tremare come arpe percosse e turbate.
La cosa meglio educata in noi è però la bocca, sempre docilmente e devotamente cucita. Innegabilmente, una bocca aperta costituisce la sbadigliante documentazione che il suo possessore si trattiene coi suoi pensierucci per lo più in tutt’altri luoghi che non nel regno e nel giardino dell’attenzione. Una bocca ben chiusa indica orecchi aperti e tesi: e per questo è necessario che le entrate inferiori, lì sotto le finestre delle narici, siano sempre accuratamente sprangate. Una bocca aperta è un grugno e nient’altro, e ciascuno di noi lo sa benissimo. Le labbra non devono gonfiarsi e lussureggiare nella comoda posizione naturale, bensì essere rintuzzate e serrate in segno di energica e intenta rinuncia. E tutti noi scolari facciamo così, tutti, conforme al regolamento, imprimiamo alle nostre labbra un atteggiamento duro e feroce.
(Robert Walser, “Jakob von Gunten”, 1909)
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