Cavalli-Sforza,
una rivincita contro l’orrore del razzismo
Il grande genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza, nato a Genova il 25 gennaio 1922, se ne è andato l’1 settembre, a 96 anni. Era un sedicenne quando – 70 anni fa, il 5 settembre 1938 – il re (che perse gli ultimi microgrammi di dignità) promulgò, col capo del Governo fascista Benito Mussolini, il decreto legge che fissava i “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”. Due giorni dopo – il 7 settembre – i due vararono i “Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri”, cui seguì, il 6 ottobre, una “Dichiarazione sulla razza” emessa dal Gran Consiglio del Fascismo e adottata dallo Stato, sempre con un Regio decreto, il 17 novembre.
L’insieme di questi decreti costituisce l’intero apparato delle leggi razziali che contribuirono ad allontanare da scuole e impieghi pubblici i cittadini ebrei e marchiarono con l’etichetta di “razze inferiori” i “non ariani” (erano considerati invece ariani doc i multicolori italiani, da Aosta a Lampedusa). Leggi sostenute e precedute in luglio dal “Manifesto della razza”. Pubblicato con il titolo “Il fascismo e i problemi della razza”, su “Il Giornale d’Italia” del 14 luglio 1938, fu firmato da alcuni dei più noti scienziati italiani. Così diventò prima la base ideologica e pseudo-scientifica della politica razzista mussoliniana, poi il “passaporto” per decine di migliaia di italiani ebrei verso i campi di sterminio nazisti.
Luca nel frattempo stava finendo, in anticipo di quasi due anni, il Liceo classico torinese “Massimo d’Azeglio”. Nel 1938 scelse la Facoltà di Medicina, sempre a Torino; ciò gli permise di seguire le lezioni di Anatomia del professor Giuseppe Levi (tra i cui allievi vi furono tre futuri premi Nobel come Salvador Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi-Montalcini). In seguito all’espulsione di Levi dalla facoltà grazie alle leggi razziali fasciste, Cavalli-Sforza un anno dopo decise di proseguire gli studi a Pavia, anche se l’università italiana, privata di molti professori ebrei con grandi competenze, era in grave declino, con cattedre ereditate da docenti collusi col regime. Per fortuna c’erano ancora persone valide, come il professor Emilio Veratti, tra i primi a consigliargli di seguire la strada della genetica. Cavalli-Sforza – laureatosi nel 1944 – iniziò a occuparsene sistematicamente a Cambridge, negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale. Si dedicò poi per 40 anni alla genetica delle popolazioni nell’Università di Stanford (Usa).
Beh, di sicuro il professore si è preso la rivincita (e l’ha regalata alle vittime del nazifascismo) sul razzismo di ieri e pure di oggi. Ha realizzato – intrecciando discipline come genetica, linguistica, antropologia, archeologia – una ricostruzione completa dell’evoluzione umana, dimostrando, in estrema sintesi, l’inesistenza delle razze: sulla Terra siamo tutti – indistintamente – membri della specie homo sapiens; geneticamente, uno di noi può essere (sempre in misura infinitesimale) più differente da un vicino di casa italiano piuttosto che da un aborigeno australiano.
Insomma, Cavalli-Sforza ha contribuito a togliere ogni fondamento al pregiudizio razziale. “Il razzismo è l’intolleranza per le persone che sono un po’ diverse da noi”, disse nel 2009 a Simona Regina del quotidiano triestino Il Piccolo. “Certo, ci sono differenze visibili, poche e non importanti. Non c’è stato tempo né motivo per creare grosse differenze genetiche nei 60mila anni in cui una singola, piccola popolazione africana si è diffusa in tutto il mondo. Cose superficiali come la forma del corpo o il colore della pelle rispondono solo a necessità ambientali”.
Purtroppo il professore, 9 anni dopo quell’intervista, ha fatto in tempo a sentire ancora affermazioni impregnate di razzismo e a vedere al governo del Paese un partito – la Lega di Matteo Salvini – che se ne fa portabandiera. È il caso delle parole pronunciate nel gennaio scorso a Radio Padania da Attilio Fontana, il candidato leghista alla Presidenza della Lombardia, poi eletto: “Non possiamo accettare tutti gli immigrati che arrivano: dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o devono essere cancellate”. Un linguaggio da anni Trenta, seguito da una finta successiva autocritica. E commentato dalle risatine di Salvini, quello che chiama “crociere” e “pacchia” le tragedie dei migranti africani e offre loro “noccioline” prima di cercare di rispedirli nei lager libici.
Ovviamente, il leader leghista (nonché ministro dell’Interno e vicepremier tuttofare) non nega agli adepti allusioni al colore della pelle: riesce a fare credere a molti (in mancanza di qualsiasi altro argomento accalappiaelettori e senza alcuna relazione tra i disagi economici degli italiani e l’arrivo dei profughi) che per ogni nero che non arriva in Italia, non importa in quale modo…, un bianco sarà più felice e persino più ricco.
E pensare che 9 anni fa la giornalista triestina chiese a Cavalli-Sforza: “Nel libro ‘Geni, popoli e lingue’ ha dichiarato che l’educazione avrebbe relegato il razzismo agli errori e orrori del passato. A cosa dobbiamo allora gli episodi di microrazzismo quotidiano che abita alle fermate dell’autobus, nei pianerottoli dei condomini, ai tavolini del bar?”. Risposta: “La realtà è che l’educazione è rimasta molto indietro. Bisogna quindi far circolare più cultura, che è stata il motore trainante dell’evoluzione”.
Peccato che qualcuno, nel 2018, preferisca regredire invece che evolversi e metta il colpo in canna (più o meno metaforicamente…) quando sente la parola “cultura”. Comunque grazie, professore. Cercheremo di essere degni della sua lezione.
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