La ricetta di Meloni: precariato e sfruttamento per i giovani
Il governo Meloni ha usato il Primo Maggio per varare il decreto sul mercato del lavoro, la riduzione del cuneo fiscale e la riforma del Reddito di cittadinanza. Questo intervento, annunciato dal presidente del Consiglio con video personalizzato in una giornata fortemente simbolica per il mondo del lavoro, è politicamente importante perché delinea la strada di interventi sociali che la destra intende perseguire nel corso della legislatura. L’occasione, inoltre, è stata usata da Giorgia Meloni anche per far dimenticare la terribile performance del 25 aprile, in cui premier e ministri ne hanno dette di tutti i colori sulla Liberazione, e la clamorosa sconfitta della maggioranza nella prima votazione del DEF.
Va ricordato che il decreto del governo segue un’uscita pubblica di forte impatto del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, parlando in una fabbrica di Cavriago (cittadina emiliana passata alla storia per un busto di Lenin ricevuto dall’Unione Sovietica in segno di ringraziamento per la solidarietà mostrata dai cittadini), ha denunciato il “lavoro povero” e stigmatizzato il ricorso alla “precarietà” che “stride con la crescita”. Anche in questo caso, come è successo il 25 aprile quando Mattarella a Cuneo ha chiuso il suo discorso ricordando Piero Calamandrei con le parole “Ora e sempre Resistenza”, il Presidente ha espresso concetti, analisi e valori che contrastano con la linea dell’esecutivo che proprio sui provvedimenti del lavoro sceglie un’altra strada, guarda al passato invece che al futuro.
Dumping sociale a favore delle imprese
In attesa di valutare, con i dati della Ragioneria dello Stato, quale sarà l’impatto reale della riduzione a tempo del cuneo fiscale per i redditi fino a 35mila euro (i calcoli sono tra 60 e 100 euro), l’intervento chiave è quello sui contratti di lavoro. Il governo, infatti, rilancia la flessibilità estrema nei contratti, rivitalizza i voucher per lavori o lavoretti saltuari (sale da 10 a 15 mila euro il tetto per pagare i lavoratori con i voucher) e allarga le maglie della precarietà estendendo fino a 24 mesi la possibilità di utilizzare i contratti a tempo determinato senza l’obbligo di rigide causali.
Si tratta di una ricetta che aumenterà il numero degli occupati temporanei, che secondo l’Inps sono già oltre 3 milioni, e creerà altro “lavoro povero” che anche il Quirinale vorrebbe contrastare. Naturalmente il governo Meloni fa scelte ben precise e la linea di “liberalizzazione del precariato” denunciata dalle Confederazioni sindacali raccoglie la sollecitazione delle imprese che così possono continuare a beneficiare di dipendenti flessibili, con contratti a tempo, pagati poco. Un dumping sociale e retributivo che diventa fattore competitivo per le imprese italiane. Il governo si è ancora opposto all’introduzione del salario minimo legale considerato uno “specchietto per le allodole”, ma sarebbe utilissimo, invece, in un Paese dove ogni anno spariscono nell’economia sommersa almeno decine di miliardi di euro.
La lezione spagnola

L’opzione del rafforzamento del lavoro a tempo determinato è davvero anacronistica in Europa, nel momento in cui diversi governi cercano di attuare politiche di stabilità nell’occupazione e nel reddito, ricreando un clima virtuoso, di fiducia, di sviluppo dopo la drammatica fase della pandemia. Qualche prova di successo nel contrasto alla precarietà emerge nella penisola iberica dove due esperienze di impronta socialista hanno portato ottimi risultati in Portogallo e in Spagna. Il Financial Times ha elogiato il successo della Spagna e forse Elly Schlein dovrebbe volgere lo sguardo a Madrid. La riforma del mercato del lavoro lanciata all’inizio del 2022 dal governo Sanchez sta cambiando un Paese che aveva percentuali record di occupazione precaria. Oggi la disoccupazione in Spagna è scesa al livello più basso dal 2008, poco più di 2,8 milioni, e diminuisce tutti i mesi da un anno e mezzo. I contratti a tempo sono più che dimezzati dal 30 al 14% del totale con un beneficio diretto sull’occupazione giovanile il cui tasso di precariato è sceso dal 58 al 39% in un anno.
Protagonista della svolta è Yolanda Diaz, 52 anni, responsabile del ministero del Lavoro. Ha convinto sindacati e imprese ad accettare la sua proposta: limitazione estrema dei contratti a termine, assunzione a tempo solo per picchi eccezionali e verificabili di produzione, oppure per sostituzioni o per lavori stagionali, ma in ogni caso tenendo legati i lavoratori al posto con contratti discontinui ma stabili. Già esponente di Podemos, Diaz ha lanciato un nuovo partito chiamato Sumar, che vuole sommare, aggiungere, contenuti ed esperienze politiche e sociali del mondo di sinistra, ambientalista e della società civile. Diaz vuole diventare la “prima donna premier in Spagna”.
L’accanimento contro i giovani
Il “pacchetto lavoro” di Giorgia Meloni è un regalo alle imprese e rafforza lo sfruttamento e la precarietà in cui versano soprattutto i giovani. Cifre alla mano, sono circa 3 milioni i giovani in età di studio e lavoro che non fanno nulla. Non studiano, non lavorano e restano fuori dal mercato del lavoro che di solito rappresenta il segno del distacco dalla famiglia e quindi l’avvio della navigazione in mare aperto. I giovani faticano a entrare nel ciclo che la società considera “normale” per cui uno studente segue e conclude il suo percorso di formazione e poi cerca un lavoro.

Ma la disponibilità di ragazze e ragazzi in età di lavoro non incrocia le richieste delle imprese che spesso si lamentano di non trovare figure professionali adeguate alle loro esigenze. E dall’altre parte le categorie dell’occupazione, dai lavoretti della gig economy ai laureati-stagisti, sono caratterizzate da retribuzioni basse, contratti precari, rapporti poco trasparenti. La proliferazione dei Neet (Not in education employment or training) testimonia l’impoverimento del Paese che non riesce a creare un progetto educativo, di crescita civile, condiviso dalle nuove generazioni. Ora Giorgia Meloni peggiora la condizione dei giovani e smantella il Reddito di Cittadinanza introducendo un “assegno di inclusione”, tutto da verificare, nonostante le perplessità della Cei e della Caritas.
Ripensare il lavoro. Ma ci mancano gli strumenti
I sindacati, il Pd, gli ex grillini di Conte sono pronti alla protesta e questa è un’occasione per fare opposizione su qualche cosa di concreto. Ma al di là delle polemiche e delle divergenze di giudizio sul decreto, oltre le varie esperienze di nuova occupazione che emergono in Europa, il tema del lavoro, con la sua perdita di valore culturale e sociale, in un sistema economico dominato dalle tecnologie e dall’innovazione, avrebbe bisogno di una riflessione profonda per comprendere e affrontare cambiamenti epocali. Il fenomeno delle Grandi dimissioni, l’impatto dell’Intelligenza artificiale sui processi produttivi, le difficoltà dei giovani nella formazione e nell’accesso all’occupazione, la parcellizzazione del lavoro, l’individualismo che fa premio sulle grandi organizzazioni, sono tutte questioni che abbiano davanti e interrogano il nostro sistema, la nostra idea di sviluppo, le nostre vite. Bisogna ripensare il lavoro e il suo ruolo nella società. Ma, in queste condizioni, ci accorgiamo forse di non avere più gli strumenti adatti per affrontare una metamorfosi che scappa di mano.
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