La poesia è la via per trovare le parole
che ci avvicinano di più all’amore
In un tempo in cui il dibattito sulla spiritualità mostra un amore un po’ feticista per le definizioni – la famiglia deve essere solo eterosessuale? I preti devono rispettare il celibato? –, non sarà superfluo ricordare che la parola non ha solo il compito di fare a pezzi la realtà, fissandola in rassicuranti etichette, ma anche quello di accennare al cambiamento. Le regole hanno senso finché restano uno strumento umano, non quando l’uomo diventa fatto per le regole.
È un’esperienza comune, che non riguarda solo i poeti, quella di provare ad esprimersi e sentirsi insoddisfatti, fraintesi. La parola porta alla luce una parte della complessità che ognuno di noi è. Ci rende visibili ma, al tempo stesso, ci tradisce. La poesia di Chierici si colloca in questo margine delicato tra parola e silenzio, tra spazio sociale e privato (“Ti nascondi/ lontano da ogni pagina,/ come un servo, ignaro/ delle conseguenze./ Ed i punti, le virgole/ premesse di una solitudine/ divenuta pubblica.”), evidenziando i rischi della definizione: “Resterai nella febbre/ imbrigliato, specchio inclinato/ nella parola che ti ha definito”. Il rapporto scrittore-lettore diventa emblema di un atto comunicativo che è ambiguamente possibilità di esistere e rischio di restare inchiodati allo sguardo dell’altro: “Guardando negli occhi/ chi ti legge, come appeso/ ad una parete”.
Rinnovare il linguaggio
Il lavoro della poesia è forse proprio quello di rinnovare il linguaggio, trovare la parola che si avvicina il più possibile a quello che sentiamo, all’amore in ogni sua forma. Si tratta di un lavoro che richiede tempo e pazienza, beni immateriali non facili da coltivare in un mondo in cui molti sono alle prese con il proprio lavoro ufficiale, con orari e incarichi spesso decisi e pianificati, almeno in parte, da altri.
Eppure la frenesia della vita, la necessità di stare nei tempi per produrre a ritmo accelerato, non riesce mai a rimuovere del tutto il fatto che il nostro tempo biologico è limitato, che abbiamo una sola vita a cui poter dare un senso. A cosa serve il nostro affannarci? “Il tempo beve le tue ore”, scrive Chierici. Perché non decelerare, tornare a cercare se stessi, le voci che ci premono da dentro? “Voci assenti, attendono di parlare/ Torna e assorbi i tuoi confini”.
La poesia di Chierici è inattuale, ci spinge a sospendere il tempo della produttività e dell’efficienza, per tornare ad ascoltare il nostro tempo interiore. È solo una lotta contro i mulini a vento? Certamente non per l’autore, che fa della poesia uno scandaglio profondo attraverso cui recuperare la traccia del proprio essere uomo, al di là di “matematiche e denari”. E forse anche per noi questa lotta può essere feconda, ogni volta che sentiamo che è la nostra vita a diventare inattuale, scandita da impegni eterodiretti e dall’ossessione latente dell’esistenza che si consuma – non importa quanto ci agitiamo.
Accettare la nostra impotenza
Tornare ai propri confini significa anche accettare la nostra impotenza – impresa ardua, nel mezzo dell’accelerazione tecnica –, concepire la vita come una domanda continua che ci nasce dentro, un ritorno del rimosso che forse a volte vorremmo evitare. Eppure solo elaborando, accettando la propria storia, di cui siamo solo in parte autori, il destino può trasformarsi in musica: “Quel progetto di ombre sublimi/ in cui cerchi l’amore e il canto/ calcando la libertà nel destino”. La relazione con l’altro ci precede, prima di ogni definizione, di ogni definitiva ideologia. Sta a noi decidere se viverla nell’odio o nell’amore. Ogni forma d’odio implica un rigetto, una rinuncia a scoprirsi. Le immagini della soglia si susseguono nella poesia di Chierici: così la “finestra” è “nostalgia della luce”, il limite materiale che permette di guardare fuori, così come il nostro io solo accettando il proprio limite può intuire la presenza profonda dell’altro; e ancora: “Stridi come una porta/ che non può aprirsi, né chiudersi”.
Proprio questa incerta permeabilità dei confini, questo faticoso e imperfetto tentativo di riconoscerci parte di qualcosa di più grande è in fondo ciò che ci rende umani. Non siamo umani nella perfezione del panorama che la nostra conoscenza ci schiude, ma nello stridore che ci accomuna. Così, “Nasce una preghiera/ che si estingue/ nella pronuncia”, nel suono stesso della poesia, nei suoi scarti musicali che esprimono un desiderio di continuo avvicinamento.
Gianluca Chierici, Devi ancora inventare Euridice, Oèdipus Edizioni, 2019.
Sostieni strisciarossa.it
Strisciarossa.it è un blog di informazione e di approfondimento indipendente e gratuito. Il tuo contributo ci aiuterà a mantenerlo libero sempre dalla parte dei nostri lettori.
Puoi fare una donazione tramite Paypal:
Puoi fare una donazione con bonifico: usa questo IBAN:
IT54 N030 6909 6061 0000 0190 716 Intesa Sanpaolo Filiale Terzo Settore – Causale: io sostengo strisciarossa
Articoli correlati