La partigiana Luce, una ragazzina in bici contro il fascismo
Si può essere partigiano a otto anni? Sì, risponde Luciana Romoli: a lei è toccato. 93 anni, bel sorriso aperto, racconta e a volte si commuove. E’ nata a Casalbertone, periferia est di Roma tra Tiburtina e Prenestina. Una zona operaia e popolare, poverissima. Di qua la Viscosa (1.200 operai), la Pantanella (700 operai) e la Serono; di là la Cuzzeri e Nenzi (metallurgica, 700 operai), il mobilificio (500 operai), il cementificio del costruttore Vaselli.
La piccola Luciana aveva un’amica del cuore alle elementari, Debora. Che fosse ebrea se ne è accorta solo quando una supplente – fascistissima, era venuta a scuola con l’uniforme da Giovane italiana – dopo aver fatto l’appello, la trascinò alla finestra e legò le sue trecce al cordino della tenda, insultandola: sei ebrea, a scuola non puoi venire. E giù insulti contro gli ebrei, quelle orrende invenzioni antisemite che hanno poi portato alla Shoah.
La classe si ribella

Le compagne si sono ribellate, Luciana in testa: avranno avuto otto anni, ma le ingiustizie le distinguevano bene. Si sono alzate, hanno liberato Debora e se ne sono andate. Però poi hanno aspettato l’uscita degli altri scolari e hanno convocato i compagni delle altre classi a casa Romoli per il pomeriggio. “Mio zio era tipografo – racconta Luciana – abbiamo scritto un testo su questa vicenda, e quando sono arrivati i compagni di elementari abbiamo consegnato tante copie quanti erano gli alunni della classe, chiedendo che li facessero girare nei caseggiati. Così abbiamo fatto sapere a tutto il quartiere quello che era successo”.
L’espulsione da tutte le scuole del regno
Una ribellione. Luciana e Anna, la sorella più grande, sono state espulse da tutte le scuole del regno, condividendo il destino di Debora, almeno fin quando la piccola ebrea non fu deportata ad Auschwitz con tutta la famiglia. La loro maestra, quella che era malata il giorno degli insulti a Debora, ha fatto avere alle due bambine, per due anni, i compiti e le indicazioni per studiare a casa. Gesto di solidarietà pericoloso, ma che volete: era antifascista.
Antifascista del resto era tutto il quartiere. Casalbertone, come il Pigneto, come Torpignattara, come Montesacro e il Tiburtino, erano zone pericolose per i fascisti. I tedeschi e i loro servi fascisti, dice Luciana, ci portavano via tutto, ci lasciavano alla fame. E le donne dei quartieri popolari erano partigiane (cioè facevano azioni di guerra) o patriote, cioè organizzavano le riunioni di caseggiato, nascondevano i fuggiaschi, facevano l’assalto ai forni.
1 maggio, una grande bandiera rossa

“Mia mamma – ricorda – durante l’inverno tingeva di rosso le lenzuola di casa, ne avremmo fatto bandiere da issare il Primo maggio (festa vietatissima) in tutte le stazioni di Roma, così che i passeggeri sapessero che a Roma si combatteva. Nell’inverno del ’43 tinse di rosso un lenzuolo matrimoniale, mio zio lo appese al palazzo più alto del Pigneto. Si era accordato con gli elettricisti perché disattivassero il cavo dell’alta tensione che ci stava sotto e riuscì nell’impresa, poi ha cortesemente avvisato con un cartello che l’alta tensione era tornata: “Pericolo di morte”. La bandiera ha sventolato per tre giorni, la sera i partigiani – c’era tra loro anche Giovanna Marturano, la partigiana chiamata “Bimba col pugno chiuso” (qui il link) – controllavano se era ancora lì. Sono stati i tedeschi ad arrampicarsi per ammainarla, non hanno trovato un italiano che lo facesse”.
Antifascista la famiglia Romoli, antifascista anche lei. Neanche tredici anni, e va da Nino Franchellucci del Pci, comandante del Gruppo di azione patriottica (Gap) di zona per proporsi come staffetta: a scuola tanto non andava, e già aveva distribuito inviti a matrimoni e battesimi tra i compagni che usavano quelle occasioni per fare riunioni clandestine.
Quando sei nata? Chiede lui. E alla risposta si scandalizza: ma ti mancano due mesi per compiere tredici anni! Toccò al compagno Lallo Bruscani, anche lui dirigente dei Gap, dire: la conosco da quando l’hanno cacciata dalla scuola, fa la staffetta da quando aveva otto anni. Se non la prendi tu, la prendo io.
Franchellucci si persuase, e Luciana diventò staffetta. Per le norme di sicurezza, rispondeva solo al comandante, non conosceva nessun partigiano. “Da ora, per noi, ti chiami Luce. Dimentica Luciana e non dire questo nome a nessuno. Così nessuno ti potrà nominare, neanche sotto tortura”. (qui l’intervista a Luce di Vittorio Ragone per il progetto “Noi partigiani” dell’Anpi)
La giornata di una staffetta
“L’organizzazione era impressionante – dice Luciana Romoli – Tutti i giorni, cambiando strada ogni giorno, alle 8 dovevo essere a Trastevere, in via della Pelliccia, da Giorgio (Enrico Ferola, morto alle Fosse Ardeatine). Era fabbro, e mi dava i chiodi a quattro punte da spargere sulle consolari per fermare i blindati nazitedeschi. Avevo una bicicletta con due sporte rettangolari e profonde: tre pacchi di qua, tre di là, la verdura sopra a nascondere. Sì, la verdura. Ogni tre giorni i partigiani dei Mercati generali facevano il giro delle staffette per dar loro ortaggi e verdure avanzate per coprire i pacchi. Giorgio mi diceva dove portarle. Per esempio da Marco, al Flaminio. Andavo. E aspettavo che Marco dicesse: ciao Luce, sono Marco. Se non me l’avesse detto, era segno che qualcosa non andava, meglio filare via. Ma non è mai successo”.
La giornata della piccola staffetta era appena cominciata. Continua la partigiana Luce: “Marco prendeva i suoi pacchi e me ne dava altri due, stesso peso perché la bicicletta non si sbilanciasse: vai da Alberto a Porta Maggiore. Anche Alberto doveva dire: ciao Luce, sono Alberto. Cambio di pacchi e nuova indicazione: vai da Nello in via Alberto Da Giussano, devi essere lì alle 15. Un orefice partigiano aveva dato a tutte le staffette un orologio, prezioso strumento di lavoro. Nessuno lo pagò, né avrebbe potuto farlo; quando la guerra finirà, me lo restituirete, aveva detto. Lo abbiamo fatto”.
Gli assalti ai forni
Gli assalti ai forni, non si pensi fosse un’azione spontanea. Era ben organizzata e coperta, invece. Spiega Luciana:“ Nelle riunioni di caseggiato, e quello che si decideva nelle riunioni di caseggiato era legge, si decideva chi e dove andare, e dove portare quello che si era riuscito a prendere. Nessuno teneva qualcosa per sé. Si divideva, e prima si pensava alle famiglie degli arrestati o dei fucilati a Forte Bravetta o alle Fosse Ardeatine, rimaste senza sostegno. Poi toccava ai più bisognosi. Noi, ad esempio, non abbiamo mai preso nulla, nonostante nostra madre fosse tra gli organizzatori. Mio padre era umbro e la famiglia da lì mandava quello che poteva, altre famiglie erano nella penuria”.
Nessuno infatti sgarrava: “Ma le azioni erano davvero pericolose. Dieci donne furono uccise durante un assalto al forno al Ponte di Ferro, zona Ostiense. Io ricordo Caterina Martinelli, uccisa davanti ai miei occhi a Tiburtino III dopo un assalto. Aveva in braccio una bimba di pochi mesi e una pagnotta. Fu raggiunta da un gruppo di fascisti che le strapparono il pane e la presero per i capelli per spararle alla testa. Lei cadde sopra la bambina, che ha avuto la spina dorsale pesantemente lesionata. Fu per anni ricoverata al Bambin Gesù, morì a 17 anni. Al Verano, sulla tomba di Caterina Martinelli è scritto: Non volevo che un po’ di pane per i miei figli, non potevo sentirli piangere tutti e sei insieme”.
Le azioni partigiane
Purtroppo falcidiata dalle delazioni delle spie, l’organizzazione partigiana era ramificata e vasta. “Mio padre era ispettore delle Ferrovie dello stato alla Stazione Tiburtina. D’accordo con i partigiani dei Castelli, che vennero con i camioncini, sono riusciti ad aprire i vagoni piombati, facendo uscire gli ebrei e i deportati, e trovando loro un rifugio. Molti sono tornati, dopo la guerra, a ringraziare chi li ha salvati”.
Le azioni erano tante, non tutte conosciute: “Mia sorella Anna, più grande di me, era bellissima. Una volta ci fermarono i tedeschi e ci chiesero: cosa c’è nelle borse? E lei, civettando: bombe a mano. Vai vai, le fecero con la mano. Noi avevamo davvero bombe a mano nelle nostre sporte. Quando le ho detto: che dici, ma sei matta?, lei fece spallucce e disse: se avessero guardato le avrebbero comunque viste… Si faceva fare la corte dai tedeschi, li portava sulla Montagnola, li faceva ubriacare e poi rubava le armi. E le ha usate. A Termini c’era un salone dove si incontravano gli ufficiali tedeschi, lei con altri buttò dentro bombe a mano e fu un macello, morti e feriti. Quella volta però non si vendicarono”.
Dopo la guerra, la fabbrica e il Pci
Finita la guerra, Luciana Romoli continuò a studiare, anche mentre lavorava nelle fabbriche tessili, il Lanificio Luciani e la Milatex: “Abbiamo lottato per la parità salariale. La paga delle operaie era più bassa di quella degli uomini, e quella delle ragazze più bassa di quella delle donne. Abbiamo vinto, alla fine, ma mi hanno poi licenziata”.
Così ha lavorato al “Pioniere”, la rivista del Pci per i ragazzi diretta da Gianni Rodari. Che le dedicò una delle sue filastrocche, “L’accento sulla A”, quando Luciana fu arrestata per aver scritto su un muro “Pace e libertà”. Rodari ha scritto: “Con un pezzetto di gesso in mano / ho scritto sui muri della città / “Vogliamo pace e libertà”. / Ma di una cosa mi rammento, / che sull’a non ho messo l’accento. / Perciò ti prego per favore, / va’ tu a correggere quell’errore”. Ma quell’accento Luciana lo aveva messo, è per questo che non è riuscita a scappare come i suoi compagni, ed è stata arrestata.
La seconda Resistenza
Ha lavorato tanto, Luciana. A Botteghe oscure è stata nella segreteria di Berlinguer, poi ha vinto un concorso all’Acea, si occupava da biologa (intanto si era laureata) della qualità dell’acqua. Ha fondato la sezione dell’Anpi di Casalbertone, dedicata alle donne partigiane, ora purtroppo chiusa.
Ma ancora adesso s’impegna, va nelle scuole, parla di quegli anni di lotta. E insiste. “La mia paura è che ritorni il fascismo, perderemmo i diritti per i quali abbiamo combattuto. Il diritto all’uguaglianza, alla solidarietà, alla libertà d’opinione, all’istruzione, al lavoro, diritti garantiti dalla Costituzione più bella del mondo. I ragazzi devono difenderla da tutti quelli che la vogliono cambiarla. Giovani, buttate a mare la società ingiusta che c’è oggi e fate una società nuova. Fate una seconda Resistenza: per il vostro bene, per tutti noi”.
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