La parola è vita: Etty Hillesum
e il diario dall’orrore di Auschwitz

Ricordiamo l’Olocausto perché, in virtù dei più vari motivi, tutti comunque umani, non possiamo dimenticare. E ciascuno ha il suo nodo, il suo chiodo che duole, una straziante artrite della memoria che non uccide ma non passa. La mia lesione è sorta anni fa vedendo e poi riguardando incautamente la fotografia di una dolce adolescente dagli occhi sospesi tra il rincrescimento e la paura. Era una giovane ebrea dai tratti dolci, di lì a poco, diceva la didascalia, sarebbe stata uccisa in un campo. La foto scattata da un inviato del Male sulla nostra povera terra era frontale, viso in primo piano, una identificazione-beffa prima della cancellazione, come previsto nelle disposizioni dell’Inspektion der Konzentrationlager, l’Ispettorato dei campi di concentramento. Chissà quanti, a Dachau, a Birkenau, a Bergen-Belsen avranno inconsultamente sperato di venir annoverati in qualche squadra per qualche compito: se mi fotografano mi “riconoscono” come qualcosa… Sullo zigomo sinistro di quell’indifeso agnello di Dio si notava il segno di una percossa, un dipiù che gli sgherri nazi raramente si negavano. Non sono più riuscito a recuperare quella immagine ma non serve, è lei che mi insegue.

L’altruismo di Esther

Invece la bambina – infinitamente di pochi anni – portata ad Auschwitz e classificata numero 26947 la si trova su qualsiasi motore di ricerca. Sono tre foto, di fronte, di lato e di trequarti col nasino all’insù e guarda come in un sogno: in questa ultima istantanea la bimba ha il capo drappeggiato da una specie di sciarpa, nelle altre immagini è scoperto, a svelare una recente, sommaria rasatura. E già pensare alla diade bambina-foto segnaletica strugge. Dov’è il fondo dell’abisso? È dove ha fissato occhi d’acciaio e di fede Esther Hillesum, olandese di Middelburg, nobile e antica città. Figlia di un professore di lingue classiche, laureata in Giurisprudenza, iscritta a Lingue Slave e studiosa di psicologia, vive i mesi che precedono e seguono il suo invio alla mattanza con eroica consapevolezza. Una ascesi, giusto nel senso di esercizio, all’altruismo totale. Scrive nel suo Diario: “Leggerò l’ultima espressione dal viso dei moribondi, con partecipazione, e la conserverò. Soffro con coloro con cui ora parlo tutte le sere, e che la prossima settimana lavoreranno in un luogo minacciato di questa terra, in una fabbrica di munizioni o Dio sa dove, sempre che possano ancora lavorare. Ma io registro in me ogni piccolo gesto, parola, espressione del loro volto, e lo faccio con una concretezza quasi fredda e oggettiva”. L’ebrea Etty ha ricevuto il dono che Salomone chiede a Jahvè: “Dai al tuo servitore un cuore che capisce” (secondo libro di Samuele).

La parola e la vita

“Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”, dice Etty mentre la macchina della Endlösung der Judenfrage, la Soluzione finale della questione ebraica, macina nervi, polmoni, ossa, spreme il dolore assoluto. Soluzione finale. Estirpando vite di bambini e di germogli puri che cercano il sole per crescere, applicando con solerzia il programma “Eutanasia” per handicappati e malati di mente, perseguendo la Vernichtung durch Arbeit, l’annientamento-distruzione tramite il lavoro. Non è pedanteria ripetercelo: un obiettivo lucidamente perseguito nei lager era uccidere facendo lavorare a morte esseri umani denutriti che dormivano al freddo e naturalmente si ammalavano. Dov’è il fondo dell’abisso? Etty muore nel novembre del ’43 ad Auschwitz, a ventinove anni. Moriranno il fratello Mischa e i suoi genitori. All’ḥerem – in ebraico lo sterminio – scampano però le sue parole e per un ebreo la parola è la vita, la lettura è vita: essere ebreo è essere bookish, gente del libro, ha detto Simon Schama. Leggiamo nel Diario: “In futuro quando la mia casa non sarà più un giaciglio di ferro in un luogo circondato da filo spinato, voglio avere una lampadina sopra il mio letto, così di notte ci sarà luce ogni volta che lo vorrò. Spesso, nel mio dormiveglia, turbinano pensieri e piccoli racconti, vuoti e trasparenti come bolle di sapone, vorrei poterli catturare su un pezzo di carta”. Un’anima eletta così sigilla la sua massima speranza: “Vorrei scrivere parole che siano organicamente inserite in un gran silenzio, e non parole che esistono solo per coprirlo e disperderlo: dovrebbero accentuarlo”.

Non dimentichiamo

Scolpiamo allora nel silenzio questo incontro nel lager tra Etty e una dodicenne denutrita: “Nello stesso modo ingenuo in cui un altro bambino ti racconta delle tabelline che impara a scuola mi ha detto: sì, io vengo dalla baracca di punizione, io sono un caso penale”. Anche l’agnello senza nome, quella giovane donna, sarà stato un caso penale. E meritava pugni in faccia non per ciò che poteva aver fatto (e cosa, poi?), era una ragazzina picchiata, sottomessa, umiliata e condannata per ciò che era. “Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima”, dichiara solennemente Etty Hillesum. Le foto che la ritraggono prima del Nulla, riflettono una personalità robustamente formata, un carattere saldo quasi oltre l’umano possibile, una ragazza che ha conosciuto l’amore e le sue pene. Ma lei, l’adolescente senza nome presa a pugni prima di quella maledetta foto cosa aveva vissuto? Si era nutrita di poche fantasie, forse aveva letto di favole e di principi e trepidato per una confidenza con l’amica più cara Adesso era lì, sola, muta per sempre, colma di terrore e sconcerto davanti a sadici in divisa. Dismessi per sempre gli abiti dei giorni sereni, spento era il luccichio ilare dei giochi. Aveva fratelli? Aveva già patito lo strappo cruento dalla madre e dal padre? Dimenticare, il 27 di gennaio e il 28 e il 29 e per sempre? Non ci riesco e va bene così.