Pandemia delle dimissioni al tempo della grande ripresa

“Niente sarà più lo stesso”. Quanto volte, negli ultimi due anni, abbiamo ascoltato analisi e previsioni in merito alla fortissima incidenza della pandemia sulla vita sociale e sui sistemi economici. E, in effetti, mentre continua la battaglia contro il Covid-19, tra progressi repentini e qualche intoppo, emergono dalle statistiche e dalle tendenze dei comportamenti alcune novità sorprendenti. La ripresa generale dell’economia in Occidente e soprattutto in Italia, che registra un balzo del Pil da primato assoluto (+6.3%) tra i paesi industrializzati, porta con sé uno sviluppo del commercio mondiale, tensioni sui prezzi dell’energia, fiammate inflazionistiche ma, a sorpresa, anche il rifiuto, l’abbandono volontario del lavoro proprio mentre i governi, con modalità e strumenti diversi, cercano soluzioni per contrastare la disoccupazione esplosa durante la pandemia e per ricucire il tessuto sociale lacerato da tensioni, chiusure d’imprese, delocalizzazioni, licenziamenti.

Negli Usa in 20 milioni hanno lasciato il posto

L’abbandono del lavoro emerge con la forza dei numeri negli Stati Uniti. Tra agosto e ottobre di quest’anno circa 4 milioni di persone hanno dato le dimissioni, il numero sale a 20 milioni se si considera il periodo dalla primavera a oggi. Un esercito di cittadini americani ha lasciato volontariamente il proprio lavoro, fonte di reddito per vivere. In Italia i numeri sono più piccoli, ma proporzionalmente non troppo se confrontati con i dati della disoccupazione e con la dinamica del mercato del lavoro. Nel secondo trimestre di quest’anno, secondo le stime del Ministero del Lavoro, 485mila cittadini hanno dato volontariamente le dimissioni, con una crescita dell’85,2% sullo stesso periodo del 2020 e del 10% sul 2019. Perché gli italiani lasciano una sicura occupazione mentre fuori, nel Paese, ci sono 2,3 milioni di senza lavoro e la disoccupazione giovanile sfiora il 30%? E perché il fenomeno delle dimissioni di massa tocca il mondo industrializzato, gli Stati Uniti dove il mercato del lavoro è dinamico (quindi in molti probabilmente cercano e trovano un’occupazione più soddisfacente), in generale gli altri Paesi dell’Ocse e pure l’Italia dove, invece, è sempre difficile trovare un lavoro dignitoso o passare da un posto all’altro? Le motivazioni sono diverse. Insoddisfazione, paura del virus, esaurimento, stress o magari rivalutazione delle priorità della vita.

Negli anni Novanta ebbe un grande successo, anche in Italia, un libro del sociologo ed economista americano Jeremy Rifkin dal titolo “La fine del lavoro”. Sosteneva che la rivoluzione tecnologica, l’avvento e la diffusione di Internet avrebbero sostituito i lavoratori esclusi dal ciclo produttivo perché le loro mansioni sarebbero scomparse. Più tardi emerse anche una scuola di pensiero secondo la quale i cittadini in un prossimo futuro, quando le tecnologie innovative avessero dispiegato tutte le loro potenzialità, sarebbero stati pagati per starsene a casa. In realtà il lavoro non è finito (e nemmeno la storia è finita come aveva erroneamente previsto lo studioso Francis Fukuyama), Internet, il mondo digitale e le sue applicazioni hanno prodotto nuova e diversa occupazione. Oggi, però, il lavoro è rifiutato per una scelta personale che, come si vede dai numeri, diventa di massa, legata alle condizioni dell’occupazione e alle scelte di vita. Un fenomeno che esplode, certo non casualmente, nella lunga e dolorosa stagione della pandemia che ha costretto tutti a interrogarsi profondamente sul senso delle proprie scelte individuali e familiari.

La grande ribellione alle condizioni di sfruttamento

In America il fenomeno del “burnout” si presenta per alcuni sociologi come una specie di ribellione alle condizioni insostenibili che il cittadino “esaurito” vive sul posto di lavoro. Un’occupazione spesso non soddisfacente dal punto di vista dell’ambizione e della crescita personale, magari provvisoria, pagata poco e male, con carichi elevati di lavoro e condizioni generali poco rispettose. Questi elementi, presenti anche in passato, oggi non sono più accettati in nome dello stipendio anche perché, dopo la stagione drammatica del Coronavirus, le persone sono più sensibili alle proprie condizioni esistenziali e sono pronte anche a rinunciare a una fonte di reddito pur di conquistare una qualità della vita che pensano migliore. Chi lascia il lavoro supera il vincolo del denaro, del salario a fine mese, perché ritiene che la tutela della salute, dell’integrità intellettuale e personale siano obiettivi da privilegiare. Probabilmente le dimissioni non nascono dal rifiuto del lavoro in assoluto, ma rappresentano il rifiuto di “queste” condizioni di lavoro vissute come costrizione o sfruttamento. Inoltre la pandemia ha diffuso modalità di lavoro diverse dal passato (da casa, in digitale, tempi modulari, orari personalizzati) che hanno rafforzato la convinzione di poter gestire e vivere meglio la propria esistenza emancipandola da vincoli e imposizioni.

Spesso gli imprenditori italiani si lamentano di non riuscire a trovare persone disponibili al lavoro, adeguatamente preparate e qualificate. La scorsa estate alcuni protagonisti dell’industria del turismo, compresi noti ristoratori, si sono scagliati contro i giovani che non accettavano di fare i camerieri o i bagnini stagionali. Lamenti ingenerosi, bisogna tener conto del contesto. Negli ultimi vent’anni l’Italia è il solo Paese in Europa in cui le retribuzioni sono diminuite anziché aumentare (fonte Ocse), dove il peso del fisco sui salari è più alto in assoluto, mentre le tutele sociali così come la richiesta di occupati laureati sono ai livelli più bassi. Sul mercato del lavoro oggi, in questa fase di forte crescita economica, dominano i contratti a termine (circa il 90% degli occupati dell’ultimo anno) mentre il tasso di occupazione nazionale è solo del 62,6%, penultimi in Europa, e quello dell’occupazione femminile è più basso ancora. Prima e dopo la pandemia, senza distinzione, donne e giovani sono rimasti i più penalizzati sul mercato del lavoro e molti, gli “scoraggiati” sono definiti, non cercano nemmeno più un’occupazione e scompaiono anche dalle statistiche.

Il fenomeno delle dimissioni di massa, del rifiuto del lavoro, sorprende solo chi pensa di poter perpetuare una situazione di sfruttamento e di svuotamento del lavoro. In Italia sono almeno trent’anni che il lavoro ha perso importanza, in coincidenza con la deriva culturale della sinistra che ha pensato di modernizzarsi ascoltando le sirene neoliberiste e l’incapacità del sindacato di comprendere e fronteggiare i cambiamenti. Il lavoro è stato frammentato, sminuito, ha perso peso politico e sociale, non ha più una rappresentanza forte e radicata sul territorio e capace di incidere sulle scelte politiche del Paese. Magari le dimissioni sono l’ultimo urlo, il gesto individuale, disperato di chi non può più sopportare questo sistema.