La metamorfosi del Pd
la Leopolda diventa
un inno a Matteo
Che cosa resterà della Leopolda 2017 nelle maglie della nostra curiosità? Il discorso di Renzi? Forse no: il segretario infatti non ritrova più lo smalto di un tempo e sembra girare su se stesso, ritorna agli 80 euro, dice che bisogna affrontare la sconfitta del referendum ma poi aggiunge, a scanso di equivoci, che se tornasse indietro lo rifarebbe pari pari, se la prende con i rancori e avanti avanti avanti più forti che pria.
Resterà lo scontro con Di Maio e i Cinque stelle sulle fake news? Oppure i ragazzi che si sono alternati sul palco a raccontare le loro storie o quelli a cui è stata affidata la conduzione di questa edizione? Resteranno i discorsi dei big, quelli che hanno ripetuto come una cantilena che il voto utile è utile e dividere è dannoso e l’unità è meglio della divisione? O ancora quelli di alcuni ministri o viceministri che hanno spiegato le grandi cose fatte dal governo (soprattutto quello di Renzi e soprattutto il milione di posti di lavoro) e alcuni lo hanno fatto con enfasi, con grande passione, anche con commozione pur di blindare il segretario? Oppure resterà per caso il dissidio in casa renziana tra Luca Lotti e Maria Elena Boschi, raccontato con dovizia di particolari dai giornali e poi smentito con un selfie in cui i due sono apparsi abbracciati e sorridenti?
Niente di tutto questo. Quello che resterà nelle maglie della nostra curiosità è l’intervento del ministro Marco Minniti. Perché ci è parso l’emblema della mutazione antropologica avvenuta nel Pd nel corso degli anni (e non solo gli ultimi, sia inteso) senza che nessuno si sia mai alzato per dire: scusate, ma dove stiamo finendo? Quando abbiamo perso la nostra sobrietà e la misura del nostro agire politico? Come è accaduto che il culto del leader abbia preso il posto della riflessione, del coraggio di dire, della voglia di discutere e di scontrarsi, del tentativo di spostare le opinioni, della forza delle idee?
Ecco, l’intervento di Minniti resterà perché è in qualche modo il simbolo di una parabola nella quale i protagonisti sono, forse, inconsapevoli testimonial. Direte: ma che ha detto Minniti di così strano? Citiamo l’ultima parte del suo discorso (la prima è stata tutta incentrata sulla sicurezza come valore di sinistra) e riportiamo l’integrale tratto dal video dell’intervento:
“All’ultimo congresso ho appoggiato convintamente Matteo. Io non penso che ogni tre mesi si deve fare un congresso. E tuttavia…”
Applausi.
“E tuttavia…”
Applausi più forti.
“Sono tutti applausi per Matteo io… io trasmetto diciamo… Stavo dicendo… tuttavia non si fa un congresso ogni tre mesi e però con grande sincerità, anche se qualcuno volesse farlo, io dico già adesso quale è la mia opinione… non l’ho cambiata: ho sostenuto Matteo e continuerò a sostenerlo”.
Applausi, quasi standing ovation. Matteo ovviamente si alza, sorride, in un tripudio di battimani abbraccia Minniti, il quale ricambia con una carezza.
Ora, Marco Minniti non è un ragazzino. E’ stato un militante e poi un dirigente comunista negli anni di Enrico Berlinguer, ha combattuto la ‘ndrangheta quando in Calabria, a Rosarno, uccideva Giuseppe Valarioti. Ha vissuto la fine del Pci e tutte le trasformazioni che ha subito nel corso degli anni: il Pds, i Ds, il Pd. E’ stato un sostenitore convinto di Massimo D’Alema e suo strettissimo e serioso collaboratore a Palazzo Chigi. Ha visto passare diversi segretari: da Occhetto a D’Alema, da Veltroni a Fassino, da Franceschini a Bersani fino a Renzi. Insomma, non uno sprovveduto o un ragazzo alle prime armi. Ecco, Minniti non avrebbe mai fatto l’intervento che ha fatto, che so, al cospetto di Berlinguer dicendo “ho sostenuto Enrico e continuerò a sostenerlo”. Non l’avrebbe fatto nemmeno con Achille, con Massimo, con Walter, con Piero, con Dario, con Pier Luigi. Non avrebbe mai detto: questi applausi sono per Massimo o per Walter io trasmetto, diciamo… No, non l’avrebbe mai fatto.
Può sembrare una fesseria, ma rifletteteci bene: non lo è per nulla. Perché quel cambiamento, avvenuto in un uomo politico che è stato di solito missurato e rigoroso, è il riflesso di una politica che lentamente, anche a sinistra, è diventata personale, si identifica sempre più esclusivamente con il leader, passa sopra a ogni differenza di idee e sopra a ogni ricerca di nuove strade (che è infatti roba da gufi) e si riduce al pro o contro il segretario. Sto con lui, accada quel che accada. Sto con lui nonostante le sconfitte, anche pesanti, subite. Sto con lui per tentare di vincere. Sto con lui, e il lui si chiama affettuosamente per nome.
Nella tradizione dei comunisti italiani, nella quale il culto della personalità ha pure avuto un ruolo non secondario, l’adulazione non era ricercata, persino Togliatti trovava insopportabili certi atteggiamenti incensatori di alcuni dirigenti (mentre gradiva ovviamente quelli dei militanti). Figuratevi Berlinguer che era paradossalmente un anti-leader. E questo perché quel partito era, soprattutto dagli anni Settanta in poi, una comunità libera, e in quella comunità i leader – non solo il segretario, ma tutti i leader che tra l’altro si chiamavano per cognome – avevano una loro fisionomia, avevano loro idee con le quali cercavano di contaminare il percorso comune. Basta rileggersi i verbali delle riunioni per capire come si discuteva e come ci si scontrava e come si costruiva, pezzo dopo pezzo, la linea del partito. Basta rileggersi il racconto di Pietro Ingrao ( qui ) sullo scontro dopo il 1956 e la reazione durissima di Togliatti messo sotto accusa quasi da tutti in un Comitato centrale. Lo stesso accadeva, con modalità diverse, nella Dc dove nessuno avrebbe mai pensato di dire in Consiglio nazionale “ho sostenuto Amintore e continuerò a sostenerlo”. Non voglio fare l’elogio del passato, anche perché quel passato contiene anche tanti errori. Vorrei prendere il buono dal passato, quello che negli anni del nuovismo è stato buttato via per apparire belli e moderni.
Sì, va bene, lo so che ora direte che ne è passato di tempo e oggi le cose sono molto ma molto diverse da allora e i partiti-comunità si sono ormai quasi liquefatti e quel che conta sono i leader. Ma siamo sicuri che non sarebbe il caso di ritrovare qualche elemento di sobrietà e di coraggio delle proprie idee che caratterizzava quegli anni lontani? E siamo sicuri che una comunità politica debba essere per forza definita dall’identificazione con una persona – una sola – e non invece dalla contaminazione di idee, di progetti e di sogni? Siamo sicuri che la sinistra non si sia perduta anche per questo e non debba ricominciare anche da qui?
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