La manipolazione attraverso l’eufemismo
che il pensiero critico deve smascherare

I mezzi di informazione operano secondo una prospettiva che possiamo definire gramsciana, in base alla quale i mezzi d’informazione sono pensati come terreno di scontro di forze politiche ed economiche; per questa ragione sono sempre stati consapevoli del potere persuasivo delle parole e hanno sentito l’esigenza di controllarne l’uso per poter conseguire il controllo delle opinioni e orientarle nella direzione desiderata. Giocando con le parole si possono manipolare i fatti e, alla fine della catena, l’intera memoria collettiva.

L’eufemismo è un esempio di questa manipolazione ingannevole che passa attraverso una riformulazione rilassante e rassicurante di un fenomeno, col fine di renderlo innocuo, ossia non più in grado di suscitare reazioni ostili come l’indignazione o la protesta. Nei giornali, in televisione, nelle dichiarazioni dei personaggi pubblici, sempre più spesso quando si fa riferimento a temi controversi e drammatici come la negazione dei diritti umani, la violenza, la morte, si ricorre a questo tipo di strategia retorica che ne ridisegna il loro contenuto negativo mediante l’uso di espressioni il più possibile sfumate e generiche.

Un tema scottante di questi ultimi anni, legato agli abusi commessi a Guantánamo, ad Abu Ghraib, al G8 di Genova o nel caso di Giulio Regeni,è quello della tortura. La molteplicità documentata dei casi riscontrati non lascia dubbi che questa pratica aberrante, denunciata e stigmatizzata dagli illuministi in primis, sia tornata tristemente di attualità e riguardi anche i sistemi democratici.Per fare in modo che l’opinione pubblica non sia consapevole di questo, la tecnica usata dalla gran parte dei media è appunto quella di non usare il termine diretto, nella convinzione che non impiegare il nome comporti la rimozione sociale del fenomeno. La “tortura” viene allora sostituita da formule eufemistiche come tattiche di interrogatorio rafforzato, interrogatori coercitivi, pressioni psicologiche, interrogatori in profondità, interrogatorio potenziato. L’effetto semantico di questa mistificazione verbale è il tentativo di forzare il concetto stesso di legalità a proprio uso e consumo, in un inquietante scenario in cui la legge perde la sua funzione fondamentale di tutelare le vittime e si trasforma in uno strumento per perpetrare l’impunità dei loro carnefici. Lo stesso tipo di strategia viene utilizzata per descrivere la guerra che per sua natura, e per gli orrori che comporta, si conferma essere l’ambito privilegiato per l’impiego degli eufemismi:si preferisce allora parlare di operazione di polizia internazionale, azione militare, azione preventiva,uso della forza, opera di pacificazione; quest’ultima espressione dissimula ancora più intensamente l’azione, essendo la guerra tutto tranne che una pacificazione di una nazione.Ci sono anche esempi in cui il tabù rappresentato dalla guerra è superato e si ricorre all’uso della parola accompagnandola però da un aggettivo che ha funzione eufemistica perché rappresenta la sua palese negazione: è il caso degli ossimori guerra umanitaria, guerra etica o fuoco amico. La stessa strategia retorica è alla base dell’espressione tortura leggera coniata qualche tempo fa dal settimanale Newsweek.

Altre volte si aggiunge un complemento di fine totalmente contraddittorio, come nel caso dell’incredibile espressione di sapore orwelliano guerra per la pace, usata da Bush jr. nel discorso indirizzato alle famiglie dei soldati feriti in Iraq. Nella stessa ottica per riferirsi alle vittime della guerra si dice che sono degli errori, degli effetti o danni collaterali; i suoi protagonisti spesso mercenari sono chiamati security contractors o manager della sicurezza. In altri contesti l’eufemismo trova un’ampia sfera di applicazione nel revisionismo,cioè nel far sì che gli eventi del passato siano riletti seguendo l’ottica dell’ideologia dominante: i nazifascisti di Salò si definiscono allora ragazzi di Salò, oppure giovani che fecero scelte diverse.

L’uso di perifrasi eufemistiche non è solo un fenomeno della nostra contemporaneità, ma risale a tempi assai più remoti:dalle espressioni scelte per la denominazione dell’uccisione consapevole delle minoranze etniche, come campo di concentramento o soluzione finale, all’espressione pulizia etnica che si è affermata in luogo di genocidio o sterminio durante la guerra nei Balcani.

Anche negli articoli dedicati alla questione palestinese gli eufemismi non mancano: lo stato di occupazione da parte di Israele, ad esempio, diventa una controversia, come se lo scenario che abbiamo di fronte fosse una pacifica aula di tribunale e non uno stato di guerra permanente. L’effetto semantico di questo offuscamento è chiaro: se la terra palestinese non è occupata ma semplicemente parte di una controversia legale che potrebbe essere risolta in una corte di giustizia, o in amichevoli discussioni, allora un bambino palestinese che lancia una pietra ad un soldato israeliano nel suo territorio sta chiaramente agendo in modo insano.Il muro costruito da Israele alto otto metri e lungo centinaia di chilometri viene definito recinto difensivo,o barriera difensiva, ricalcando pedissequamente la definizione israeliana del muro (security fence) e minimizzando l’impatto negativo che ha avuto e continua ad avere sulla popolazione palestinese. Le azioni israeliane di colonizzazione della terra araba contro ogni legge internazionale diventano insediamenti o avamposti o quartieri ebraici. Ci viene detto che ciò con cui abbiamo a che fare in Medio Oriente sono le narrazioni concorrenti. Questa frase dal falso linguaggio antropologico elimina la possibilità che un gruppo di persone sia occupato, mentre un altro sia l’occupante: secondo quest’ottica non c’è giustizia, né ingiustizia, non c’è oppressione né oppresso, ma solo alcune amichevoli “narrazioni concorrenti”, collocate su un piano di parità perché le due parti sono “in concorrenza”. L’obiettivo è far sì che l’opinione pubblica dimentichi che cosa è realmente accaduto in Palestina.

L’individuazione e lo smascheramento di queste strategie di manipolazione ingannevole rappresenta oggi uno dei compiti fondamentali del pensiero critico, dal quale dipende,da un lato, una possibile riqualificazione del discorso pubblico di cui abbiamo molto bisogno e, dall’altro, la possibilità per i cittadini di non essere spettatori passivi dello spettacolo comunicativo e bersagli indifesi delle tecniche di propaganda.