La lunga storia del “politicamente corretto” per evitare le parole-proiettili

Si parla spesso di “politicamente corretto”. Di solito male. Anzi, a leggere i giornali si direbbe che il politicamente corretto sia IL male. Temo che molti non sappiano veramente di cosa si tratti. “Politicamente corretto” (politically correct, anche abbreviato PC) – secondo i suoi propugnatori, invisibili in Italia – dovrebbe essere il linguaggio: le parole non sono neutre, portano con sé riferimenti, connotazioni, e possono risultare offensive. Termini pronunciati con leggerezza suonano come proiettili per chi li ascolta, se appartiene a una certa categoria di persone, a una minoranza: di qui l’invito pressante a soppesare quello che si dice, a evitare espressioni che implichino disprezzo, discriminazione, astio. Per estensione, politically correct è qualunque atteggiamento, misura, pratica, che si oppone alla discriminazione e alla marginalizzazione delle minoranze.

Negli Stati Uniti c’è una lunga storia di pulizia della lingua: nell’Ottocento certe canzoni razziste usavano il termine deliberatamente offensivo nigger, e i riformisti come Stephen Foster lo sostituivano con darkie (“scuretto”); ancora negli anni Sessanta del Novecento un intellettuale progressista bianco come Leonard Bernstein poteva usare con disinvoltura la parola negro, più tardi sostituita da Afro-American, e poi da African American (che è oggi la dizione politicamente corretta: non dite Afro-American negli USA, perché potrebbe essere interpretato come “un americano con una pettinatura afro”). Intorno al 1925 un genere di musica che divenne molto popolare fu chiamato hillbilly (letteralmente “capra di montagna”), termine che descrive in modo derogatorio dei montanari poco raffinati; nel 1949 la rivista Billboard decise di cambiare il titolo della classifica di vendita dei dischi di quella musica, anche in segno di rispetto per le centinaia di migliaia di hillbilliese di rednecks che si erano sacrificati nella Seconda Guerra Mondiale, e da allora la musica hillbilly si chiamò country and western. Un anno prima la musica degli Africani Americani, che prima si chiamava race music (“musica di razza”, o “della razza”) divenne rhythm and blues.

A quell’epoca, comunque, l’espressione politically correct così come la si intende oggi non era quasi mai usata. Iniziò a circolare negli anni Settanta, e si diffuse fortemente, soprattutto nelle università statunitensi, dalla metà degli anni Ottanta in poi, anche sotto l’influenza degli scritti di pensatori francesi (Foucault, Derrida) che avevano sviluppato una critica approfondita del linguaggio e della sua presunta neutralità. Il politicamente corretto divenne la bandiera della sinistra radicale e di tutte le minoranze, e ben presto fu anche il bersaglio della destra conservatrice. Nel frattempo, insieme alla French Theory, il politicamente corretto era approdato anche nelle università degli altri paesi anglofoni, a cominciare dalla Gran Bretagna. Conservo gelosamente un paio di libriccini pubblicati in Inghilterra all’inizio degli anni Novanta, che sono dei manualetti sull’uso del politically correct, con l’intento di ridicolizzare i suoi eccessi: già allora, infatti, il fondamentalismo di alcune frange aveva prodotto i suoi effetti. Non si poteva dire che uno (o una) era grasso (o grassa), ma che era horizontally challenged (“con un problema orizzontale”), e tantomeno non si poteva dire che uno (o una) era un nano (o una nana), ma che era vertically challenged. Il caso forse più noto (e più serio) dell’estremismo PC fu la proposta di cambiare il sostantivo history (storia), in herstory, per mettere in evidenza il peso oppressivo che l’egemonia maschile aveva avuto nella società e negli studi storici. Naturalmente c’era imbarazzo a replicare che history è una parola di origine latina, e che his non è un suffisso legato al possessivo maschile (quindi da sostituire con her, per dire “la storia di lei” e non quella “di lui”), e che quindi chi faceva quella proposta era un ignorante (o un’ignorante), perché avrebbe potuto sentirsi discriminato/a. Del resto l’influenza del politically correct nell’accademia anglofona, al di là di casi estremi come quello appena accennato, è tuttora forte. Se si scrive un saggio per una rivista accademica in lingua inglese, bisognerà stare attenti a prendere sempre in considerazione le alternative di genere: non esistono più un “lui” o un “suo” generici, ma si deve indicare he or she (“lui o lei”), s/he (“lei/lui”), his/her (“suo/sua”), e molti editori ormai suggeriscono che si usi solo il pronome o il possessivo femminile, con il sottinteso che per secoli si sono usati quelli maschili, e adesso si cambia.

Mentre tutto questo accadeva nel mondo di lingua inglese, e anche in altre nazioni e culture (in spagnolo oggi si scrive tod@s e amig@s, per dire tutti/e e amici/amiche), in Italia continuavamo a darci dei terroni, dei polentoni, dei burini, dei finocchi, e via insultando. Silvio Berlusconi liquidò una manifestazione di pensionati contro il suo governo dicendo che erano “quattro vecchietti”. Nessuno protestò. L’aspetto più interessante è proprio questo: che la sinistra italiana sia stata a lungo indifferente alle istanze del politicamente corretto, e anzi che molti politici e intellettuali di sinistra si siano apertamente schierati contro. Nel paese più maleducato d’Europa farsi sostenitori di un linguaggio non offensivo è ritenuto controproducente, sintomo di un’incapacità di cogliere i problemi “veri”. Intanto i fascisti, berciando come dei carrettieri (o delle carrettiere: e mi perdoni la stimata categoria, se ancora esiste), occupano la scena.