La lezione del sindaco Nathan
e il possibile futuro di Roma
Da qualche anno una lunga sequenza di avversità, una più paradossale dell’altra, ha imposto un dubbio: ma Roma è diventata una città ingovernabile? La storia, recente e lontana, offre una risposta diversa: assieme a tanti sindaci “normali” o anche modesti, Roma è stata amministrata anche da personalità che hanno lasciato un segno importante nella vita materiale e immateriale di tante persone. Grandi sindaci voluti dal Pci, come Luigi Petroselli e Giulio Carlo Argan e un ventennio più tardi – uno dopo l’altro – Francesco Rutelli e Walter Veltroni che per 14 anni hanno fatto respirare e crescere la capitale. Ma prima di tutti loro, ai primi del Novecento, un sindaco per certi versi leggendario: Ernesto Nathan.

È passato alla storia come un grande sindaco, per alcuni il più grande della storia di Roma, ma si è sempre trattato di una nomea ad honorem. Tanto elogiato ma poco conosciuto. Si ripete da decenni: è stato un amministratore straordinario. Eppure nessuno lo ha imitato. Forse perché troppo anticonformista e così estraneo agli interessi forti da renderlo inimitabile? Era diventato sindaco nelle ultime settimane nel 1907, alla guida di una coalizione che metteva assieme liberali e repubblicani, radicali e socialisti di tutte le anime. Nei 40 anni precedenti i romani si erano fatti guidare da nobili prestati alla politica.
Con quei precedenti nessuno poteva risultare più eccentrico di un personaggio del quale allora si conoscevano soltanto i connotati essenziali ma molto definiti: anticlericale, ebreo, repubblicano, idealista, nato a Londra ed estraneo agli interessi vivi che si muovevano in città. Aveva vissuto la giovinezza in un ambiente rivoluzionario, seguendo le orme della madre, donna di straordinario carisma operativo.
Per decenni Sarina Nathan aveva protetto Giuseppe Mazzini e ne aveva finanziato i progetti sovversivi e per queste ragioni era stata tallonata in tutta Europa dalla polizia sabauda. Dietro di lei, ovunque fosse stata costretta a trasferirsi, si era portata dietro i dodici figli, tra i quali Ernesto che finirà per impregnarsi delle idealità mazziniane: istruzione laica e per tutti, questione morale, la politica come etica civile, un’etica mai integralista ma imbevuta di pensiero impaziente di trasformarsi in azione e concretezza.

A Roma Nathan si era presentato con un atteggiamento anti-demagogico: sostenendo di essere pronto ad «accettare suffragi ma non a cercarli».
Al termine dei sei anni di Campidoglio migliaia di romani non abitano più in squallidi rifugi e conoscono il miracolo di aver acqua e gas nelle proprie abitazioni a costi più bassi; il tram costa meno e arriva in periferia; migliaia di bambini entrano per la prima volta in una scuola pubblica. C’è per la prima volta (e anche l’ultima) il disegno di una città a misura d’uomo e sottratta alla legge della speculazione. C’è la lezione (sbalorditiva, pensando a quel che accadrà successivamente) di aziende pubbliche capaci di fare concorrenza ai privati con le armi della tecnologia e dell’efficienza. E poi una squadra di fuoriclasse: competenti prestati alla politica. Ma la Giunta Nathan non è un asettico “governo di tecnici”, semmai di esperti con tanto di “tessera di partito”, spinti da una forte carica di idealismo.
Sei anni di governo che finiscono per suggerire un modello di governo, che resterà a “disposizione” non solo di Roma e di tanti altri Comuni, ma anche di chi aspira a guidare un Paese. E la lezione di un sindaco e di un gruppo di assessori, uniti da una convinzione: per cambiare le cose, bisogna crederci. Senza mollare davanti alle pressioni dei poteri forti. Nel 1913 Nathan lascerà con un Campidoglio “assediato” dalle forze emergenti – cattolici conservatori e nazionalisti – ma senza aver mai perso una sola elezione.
Questo brano è tratto dal libro
Fabio Martini
Nathan e l’invenzione di Roma. Il sindaco che cambiò la Città eterna
Editore Marsilio, pag. 284 euro 18
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