La lezione del Friuli: nel campo progressista le alleanze sono indispensabili

Oramai è persino abbastanza deprimente: i commenti politici sulla stampa seguono quasi sempre un copione scontato: si potrebbe persino scommettere sugli schemi che verranno adottati nel presentare gli eventi. Qualcuno aveva forse qualche dubbio che il primo riflesso pavloviano sarebbe stato quello di dire che l’”effetto Schlein” è subito svanito?

Ed infatti è quanto puntualmente accaduto con le elezioni in Friuli Venezia Giulia, e solo alcuni commentatori, quelli più onesti intellettualmente, hanno ammesso che era difficile davvero che un tale “effetto” si potesse già vedere ad un mese dalle primarie. Inoltre, si persevera, da parte dei media, a offrire una lettura del voto “iper-personalizzata”, come se una nuova leadership potesse di per sé cambiare, e in poco tempo, una dimensione strutturale, e di lungo periodo, della geografia elettorale del nostro paese.

Udine al ballottaggio, ed è un test importante

Anche in Friuli Venezia Giulia c’è stato un forte calo di partecipazione alle elezioni regionali

Fosse solo questo: il problema è che non si fa nemmeno più la fatica di leggere e analizzare i risultati elettorali. Ci limitiamo a fornire qui alcuni primi elementi, e a proporre poi una riflessione su quella che riteniamo la maggiore implicazione politica di questo voto regionale (ma anche del voto comunale a Udine, che ha una sua rilevanza).

I confronti vanno fatti con le elezioni regionali di cinque anni fa, che si tennero appena un mese dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018; ma sono utili anche alcuni riferimenti al voto del 25 settembre 2022.
Intanto, continua a scendere il livello della partecipazione; dal 49% del 2018 al 45,3% di queste elezioni: nonostante il gran parlare di “regionalismo differenziato” il voto alle Regionali appare sempre più percepito da una gran massa di elettori come un voto di “secondo” o “terzo” ordine, tanto più in situazioni in cui, come oggi in Friuli Venezia Giulia, e pochi mesi fa in Lombardia e Lazio, non vi è alcuna sostanziale incertezza sull’esito del voto: laddove solo elezioni percepite come “aperte” o competitive possono essere uno dei principali fattori di mobilitazione degli elettori.

Cresce anche la personalizzazione del voto: vi sono stati 490 mila validi ai candidati presidenti, rispetto ai 394 mila voti validi alle liste. Fenomeno interessante, che si combina con l’elevato astensionismo: contrariamente a quanto afferma la vulgata, non è vero che “votare per le persone” incentiva una maggiore partecipazione.

Guardiamo all’andamento dei vari schieramenti.

La coalizione di destra fa il pieno del proprio elettorato

Ii candidato presidente del Centrodestra passa dal 57% del 2018 al 64% di quest’anno. All’interno del centro destra, come prevedibile, Fratelli d’Italia passa dal 5,5% al 18,1; ma il primato resta alla Lega, che pure scende dal 34,9% del 2018 al 19% odierno. La lista Fedriga ottiene il 17,8%, mentre Forza Italia si ferma al 6,7% (era al 12%). La crescita complessiva dal 57 al 64% è attribuibile anche al riassorbimento dentro il centrodestra di una lista autonomistica che nel 2018 aveva ottenuto, correndo da sola, quasi 24 mila voti, con il 4,4%.

Dunque, il centrodestra fa il pieno del proprio elettorato, non pagando alcun dazio al calo dei votanti: in cifre assolute aveva oltre 300 mila voti nel 2018, ne ottiene ora quasi 315 mila. Si conferma l’elevata mobilità infra-coalizionale dell’elettorato del centrodestra.

Il candidato del centrosinistra era al 26,9% nel 2018, oggi è al 28,4%: ma in questo dato va inclusa, oggi, la lista del M5S, che però ottiene appena il 2,4%; mentre va esclusa la lista IV/Azione che correva solitaria e ottiene solo il 2,7, non superando la soglia per entrare in Consiglio. A questi dati va aggiunto un cospicuo 4,7% ottenuto da una lista NO-VAX, che riesce ad entrare nel Consiglio Regionale.
Meritano di essere analizzati più da vicino i risultati del M5S e del Pd.

La lista del Pd ottiene il 16,5%, rispetto al 18,1% del 2018. C’è da dire che la lista personale del candidato del CS nel 2018 ottenne il 4,1: analoga lista, quest’anno ha ottenuto il 6,3%. Guardando alle cifre assolute, il Pd passa da 76 mila voti a 65 mila voti: gli spostamenti sono quasi simmetrici: sono 10 mila i voti del cosiddetto Terzo Polo (qui in Friuli, quarto!), che – è del tutto evidente – sottrae voti solo al PD; mentre i voti della lista del candidato presidente Moretuzz sono ben 27 mila (rispetto ai 17 mila del suo predecessore nel 2018). Nessuna espansione del CS, ma nemmeno una caduta verticale: il centrosinistra si limita a “tenere” un suo bacino (minoritario) di consensi.

Il dato del M5S merita di essere analizzato da vicino, e anche in questo caso sarebbe bene consigliare ai commentatori frettolosi un po’ di prudenza: si dovrebbe oramai aver capito che il voto locale e regionale è fortemente penalizzante per il M5S; ma anche stavolta si intona il de profundis sulla “scomparsa” del partito di Conte.

In FVG, correndo da solo, alle regionali del 2018, il M5S ottenne l’11,2%: un mese prima alle politiche aveva ottenuto ben il 24%. Alle politiche del 25 settembre il M5S ha ottenuto il 7%: ora appena il 2,4%. Si conferma un dato strutturale: il M5S non ha un elettorato “fedele” nel momento in cui si vota localmente: è un elettorato fragile, disancorato, volatile, che non sente alcun forte vincolo di “appartenenza”; e che perciò, alle elezioni locali e regionali, in gran parte o si astiene e o si disperde.

E’ un problema serio, per il M5S: quando in campo c’è Conte, il partito regge (e regge come partito d’opinione, nei sondaggi sulle intenzioni di voto); per il resto crolla. Anche qui: non è un alibi, quello avanzato in varie occasioni da Conte e dal suo gruppo dirigente, quando si ricorda che solo da poco sono stati nominati dei responsabili regionali e provinciali e si sta provando a costruire dei gruppi territoriali; ma è certo che questo processo di radicamento appare lento e molto faticoso: paradossalmente, si rischia di avere di fronte un partito d’opinione che continua ad essere abbastanza forte, ma senza un vero tessuto diffuso di dirigenti e di militanti. Party without partisans, per citare un libro sui partiti di qualche anno fa.

Da più parti si solleva un’obiezione interessata: il M5S va male quando si allea con il Pd. Falso: già i dati di Lazio e Lombardia (ugualmente negativi, in presenza di diversi sistemi di alleanza) smentivano questa interpretazione, e lo stesso accade ora anche con il voto in FVG.

Massimiliano Fedriga, presidente Friuli Venezia Giulia
Massimiliano Fedriga

La conferma arriva proprio dal voto alle Comunali di Udine. Qui il M5S correva “da solo”, o meglio insieme alla lista “personale” del candidato sindaco e ad un’altra lista civica. Questo candidato, Marchiol, ottiene un buon risultato, il 9,24%, ma il dato clamoroso è che questo risultato matura grazie al 4,3 % della lista personale del candidato e e all’1,1% dell’altra lista civica, e solo per il 2,3% proviene dalla lista del M5S. Peraltro il candidato sindaco, evidentemente apprezzato, prende 3903 voti, mentre le tre liste di sostegno 2554: 1349 voti personali espressi al solo candidato, senza alcun voto di lista.

Il centrosinistra va meglio nelle aree urbane

Il risultato di Udine è positivo, a conferma che il centrosinistra va molto meglio nelle aree urbane e metropolitane: si va al ballottaggio, con il CD al 46,25% e il CS al 39,7 (Pd al 19,5%). In termini assoluti, una differenza di appena 2700 voti. La chiave di volta sarà il comportamento dei 3900 elettori di Marchiol e, tra questi, dei 774 elettori del M5S.

Intanto, alcune considerazioni politiche: da ora alle elezioni europee del 2024, che si svolgeranno con il sistema proporzionale, non ci saranno novità sul piano delle alleanze: c’è solo da sperare che tutte le opposizioni trovino un terreno comune per contrastare il governo, e che la concorrenza-emulazione avvenga in forme civili e magari produttive per tutti (puntando al recupero dell’astensionismo di sinistra).

Ma in vista delle prossime politiche, quale che sia la loro data, le cose sono molto chiare: posto che ben difficilmente si riuscirà a cambiare la legge elettorale (che il centrodestra non ha il minimo interesse a toccare), e posto che saranno necessarie delle alleanze, anche solo tecnico-elettorali, cosa fare per evitare il remake del disastroso 25 settembre 2022 (di cui ora stiamo constatando gli effetti, misurando l’irresponsabile leggerezza con cui tutto il CS e il M5S hanno affrontato queste elezioni)? Sarebbe bene pensarci per tempo, e avere (tutti) un po’ di lungimiranza.