La jacquerie dei “giubbotti gialli” e le rivolte del passato

A Étienne Marcel, ricco importatore di tessuti che nel 1358 guidò la plebe contro la corte e i nobili di Parigi, è stata dedicata una statua, che si trova ancor oggi vicino all’Hotel de Ville. È dubbio che lo stesso onore sarà riservato a Jacline Mouraud, impiegata nella provincia bretone del Morbihan che alcuni giornali, molte televisioni e tutti i socialmedia indicano come l’iniziatrice del movimento dei Gilets Jaunes, i giubbotti gialli che sabato hanno paralizzato mezza Francia bloccando autostrade e strade di grande scorrimento dalla Normandia al Monte Bianco e prendendo d’assedio, un po’ più che simbolicamente, il palazzo dell’Eliseo e il suo sgomento inquilino Emmanuel Macron.

Si è trattato di una cosa grossa, la partecipazione alla quale le autorità di polizia francesi hanno quantificato con molta precisione (o molta fantasia) in 242 mila manifestanti. E si è trattato di una cosa seria: in un paesino delle Alpi c’è stata anche una vittima, una manifestante uccisa da una automobilista che aveva perso la testa e poi molti feriti, anche tra la polizia e i gendarmi, molti fermati e molti arrestati. Ma soprattutto si è trattato di una cosa improvvisa, che nessuno si aspettava. Non se lo aspettavano certo Macron, il suo fido primo ministro Édouard Philippe, il governo e le prefetture. Ma neppure gli osservatori politici, i sociologi, i geni della comunicazione che riempiono gli uffici delle amministrazioni pubbliche e dei partiti.

Proprio come era accaduto 660 anni fa, quando nessuno alla corte di Giovanni il Buono si aspettava che i plebei di Parigi si armassero di bastoni e coltelli per unirsi ai villici venuti in città con i forconi e tutti insieme marciassero sull’ Île de la Cité. Poiché i nobili non avevano certo il tempo e la voglia di imparare i nomi dei contadini al loro servizio e perciò li chiamavano tutti Jacques Bonhomme, la rivolta fu chiamata jacquerie e da allora quel nome restò ad indicare quel tipo di protesta popolare: improvvisa e violenta. Nel maggio del 1358 la scintilla che scatenò il fuoco fu l’ennesimo aumento dei balzelli determinato dalla necessità di pagare agli inglesi il riscatto del re, che era stato fatto prigioniero nella battaglia di Poitiers.

Anche dietro alla moderna jacquerie dei giubbotti gialli c’è stato un aumento di balzelli: quelli della benzina e del gasolio e se a mettersi a capo della rivolta del 1358 fu un borghese che odiava i nobili, a scatenare quella del 2018 è stata un’impiegata statale con l’hobby della parapsicologia e dell’occultismo, nemica giurata degli avvelenatori delle scie chimiche e con un suo buon seguito in Rete. Esasperata dall’ennesimo aumento dei carburanti, Jacline il 18 ottobre ha “postato” su facebook un appello all’insubordinazione che nelle settimane successive ha raccolto milioni di adesioni, accompagnato da una raccolta di firme promossa dalla venditrice di cosmetici parigina Priscilla Ludovski che in pochi giorni ha raggiunto la bellezza di 800 mila adesioni.

Un successo straordinario, non c’è dubbio. Qualcuno lo ha visto come il primo, rivoluzionario, fenomeno di mobilitazione popolare, spontanea e senza capi né portavoce, tutta in Rete, aggiungendo come corollario che la politica d’ora in poi dovrà fare i conti con questa interlocuzione. I populisti del Rassemblement national di Marine Le Pen si sono mossi subito per intercettare le ragioni della protesta, ma non pare che ci siano riusciti molto.

Forse si è un po’ esagerato nei commenti a sottolineare la novità: l’”oggetto sociale non identificato”, come argutamente Il Manifesto ha definito la rivolta dei Gilets Jaunes, non sembrerebbe un fenomeno proprio del tutto inedito. Nuova, sicuramente, è la dimensione che gli è stata offerta dalle possibilità di diffusione e di velocità della Rete, ma i contenuti e le motivazioni che la sostengono appaiono, a ben guardare, alquanto vecchiotti. E non poco contraddittori. Tali, si direbbe, che non avranno lunga vita politica.

I giubbotti gialli protestano contro un aumento, peraltro abbastanza contenuto, dei prezzi dei carburanti deciso dal governo con l’obiettivo non di far cassa ma di scoraggiare il traffico privato e finanziare forme di trasporto meno distruttive dell’ambiente. Due obiettivi più che ragionevoli che paradossalmente, hanno fatto notare diversi osservatori, sono in buona parte condivisi anche da quelli che scendono in piazza contro gli aumenti: coloro che contestano il rincaro di benzina, gasolio e gas sono in buona misura gli stessi che si lamentano per l’aria inquinata e molti di loro sarebbero molto contenti se si potesse realizzare una rete di trasporti in comune che non li obbligasse a prendere la macchina ogni mattina.

La contraddizione è evidente, anche se va valutata vagliando certe particolari caratteristiche del “popolo dei gilets” che ha dato vita alla protesta clamorosa: si tratterebbe soprattutto di persone che vivono in campagna e lontano dalle città, persone che non possono servirsi di una rete pubblica capillare ed efficiente come quella che esiste in Francia (beati loro) non solo a Parigi ma anche nelle città di medie dimensioni. Persone, insomma, per le quali l’uso dell’auto privata ora come ora è davvero una necessità.

Qualche ragione per protestare contro l’aumento dei carburanti questa categoria di “automobilisti per forza” insomma la può vantare, anche se andrebbe messo nel conto anche il fatto che gli introiti dovrebbero servire, nelle intenzioni del governo, anche a sviluppare auto a trazione pulita e vetture elettriche destinate proprio a chi è “condannato” all’auto privata, settore nel quale l’industria francese è abbastanza avanzata, anche grazie alla politica di questo governo e dei precedenti.

Come le jacquerie del passato anche questa jacquerie dell’epoca della Rete sembrerebbe destinata ad avere la durata di un fuoco di paglia mediatico. Diversi e ben più profondi sono i dissensi che attraversano la società francese nei confronti di un presidente che aveva promesso tante novità e acceso parecchie speranze. Il feeling dei ceti più popolari ha subìto pesanti ridimensionamenti dopo la riforma del mercato del lavoro che poco più di un anno fa ha ridimensionato drammaticamente la contrattazione collettiva e ha introdotto una deregulation drastica nelle piccole aziende, con la conseguente mobilitazione dei sindacati e la creazione di un clima che resta molto teso nelle relazioni industriali. Anche larghi settori dei ceti medi sono delusi da una politica fiscale che ha favorito, di fatto, solo i redditi più alti. La sinistra più sensibile ai diritti umani è delusa per le politiche restrittive verso l’emigrazione e l’opinione più orientata a favore dell’Europa per lo stallo in cui, anche per responsabilità dei tedeschi e per la debolezza di Angela Merkel, si trova l’ambizioso progetto di rilancio dell’Unione. Tutto ciò si traduce in una drammatica debolezza in fatto di consensi: secondo gli ultimi sondaggi, il presidente sarebbe al 25% di gradimento. Soltanto Hollande, in passato, era riuscito a fare di peggio.  In fondo, l’unico settore nel quale Macron e il suo governo sembrano giocare un ruolo propulsivo è quello della tutela dell’ambiente e della ricerca di energie alternative, eppure proprio qui hanno colpito i Jacques Bonhomme del 2018.