Bellezza e speranza nel Natale a Genova

Ora deve essere chiaro che la sostanza di tutto, la ragione soggiacente al fatto che ora sia qui, sia tornato per restare e resterò nella città di Genova, è pura e squisita, gratuita necessità di bellezza. Non sono tornato per la fortuna, sono tornato per la bellezza. È in questa città che ho stabilito la sua sede.

Che ne so io della bellezza? So solo che ne ho bisogno come del pane. So che qualcosa mi è stato insegnato circa la bellezza senza che ne sentissi mai pronunciare il nome. Nella cucina della Veronica, sull’aia di quella casa, nelle sue cantine, negli orti e nei campi intorno. Modesta educazione generata senza alcun metodo, ma dal semplice fatto che ogni persona intorno a me, ogni gesto di ognuno tra quelli che mi hanno cresciuto, ha teso nel suo farsi a creare bellezza, utile bellezza, per la precisione. Quello che ho imparato concerne gli atti del creare; del costruire, per la precisione, utile bellezza.

Quei contadini che prima che io mi svegliassi erano già tutti dispersi nel mondo, altro non hanno fatto nella loro vita se non lavorare; lavorare, riposarsi un poco e vivere con decenza e dignità. E queste sono condizioni del fare, qualità inerenti i gesti. Sono cresciuto circondato dalla bellezza perché tutto intorno a me era costruito di gesti di dignità e decenza. Tutto ciò era compreso nell’orizzonte abitato; un universo intero ordinato in proporzioni e agito come un’opera interrotta. Lavorare i campi nella mia lingua si dice: andare alle opere. Compiere un’opera non è arare un campo, ma ararlo bene, e il bene consiste nella gratuità della dignità e della decenza. È arare “a regola d’arte”. Potare a regola d’arte una vigna è gesto di bellezza, è tutta la dignità e tutta la decenza di un contadino, la sua nobiltà.

E di questo ho imparato ad aver fame, e questo cerco. Dappertutto. Per consolazione lungo la strada, per riposare quando mi fermo. Per stabilire dove sarà la mia casa, per non perdermi quando ne esco e quando intendo tornare.

O per perdermi invece, ma di quella meravigliosa perdizione che è la vertigine dell’appartenere. Quando i tuoi occhi incontrano la bellezza e smettono di guardarla e cominciano a sorbirla. Quando è il tuo corpo che sente la bellezza, e la meraviglia ti abita. Fosse anche solo il triplo tornante della crosa (1) della Madonnetta. L’elica di pietra serena e mattone e porfido che trasfigura la salita in Ascensione. E il suo movimento perfetto ti spinge tutto quanto sei verso il cielo; il cielo è indaco di tramontana. E il bordo della crosa è fiorito di camomilla selvatica, e l’ombra sul muro a secco è merlettata dalle fronde di edera. Odora l’edera e la camomilla, la pietra serena e persino il cielo.

Vedi intorno fino all’orizzonte di San Benigno, e oltre, fino alla diga, e oltre ancora, fino alla striscia di Pra’, e forse fino al Monviso, l’ordine perfetto del creato nelle mani buone degli uomini. Tu ne sei una parte né più né meno dei ciottoli della crosa, delle edere, delle ombre cremisi sulla malta rosata tra le pietre della spalletta. Sei un rumore silenzioso. Resteresti lì in eterno, perché lì ora hai eletto la tua casa, eretto il tuo riparo. Poi, da una finestra di una cucina di là dall’ulivo senti il rumore di un coperchio e un tegame che si accoppiano, una sedia che inciampa, un paio di parole gettate dalla cucina a un tinello dove qualcun altro ha acceso un televisore. E odori il profumo di un sugo, di una consuetudine buona, di una tovaglia appena stirata, di un matrimonio durevole, di una telenovela romantica. E vorrei essere gatto in quella cucina, ospite nel tinello. Ma per non forzare la porta, riprendo ad ascendere e tornare prima di notte a un’altra mia casa.

Fosse anche. Fosse un crepuscolo di giugno nei giorni di San Giovanni; fosse che sono appoggiato alla ringhiera di ghisa a ghirigori del balcone della casa di Giorgio. Ecco, le ultime lucciole di sole tintinnano sulle finestre del Carmine. Odore di muschiato, di caldo che sale dalle fessure viola di San Bartolomeo e dagli anditi interiori della Fragola, dello Zucchero, dell’Olivella e della Prudenza, ma potrebbe anche essere chili e banano. La Lanterna. Il fascio puntuto del faro della Lanterna che scivola sulla palma di Giorgio e si infila tra i miei occhiali. Un palpito di luce cremosa di vapori ogni due secondi; il cuore lento del guardiano del porto. Oltre la palma e la muraglia della cisterna, incistato come un nido di colomba nello sbalzo della scarpata che sostiene la spianata di Castelletto, il campo da bocce del Circolo Montegrappa. Toc, tac, stale atentu gunduin (2), toc. Non sto vedendo quegli uomini, ma li conosco. Salgono alla spianata in motorino con la sacca delle bocce a tracolla, si infilano per una rampa nel loro circolo ex combattenti e si pongono ad adorare la bianchetta (3) che con antico e desueto rito viene ancora offerta nei bicchieri detti francesini. Hanno tutti combattuto, ma non sulla linea del Piave. Chi meglio, chi peggio. Facchini negli scagni (4) del Porto Franco, falegnami nei fondi dei Giustiniani, lattonieri nelle baracche del lungomare Canepa, giornalieri della Compagnia Unica (5). Dal loro nido occhieggiano l’evolversi dei tempi senza rancore, miti e orgogliosi. E in questa sera di tardo solstizio, mentre nell’ultima luce già sento il sospetto che l’anno sta prendendo a calare, il rumore delle loro bocce e il rumore della loro lingua mi inducono a credere che tutto questo possa durare in eterno. Che il guardiano del porto saprà trovare per sempre il varco nella palma di Giorgio. E io avrò sempre gomiti per una ringhiera. E ci saranno sempre ringhiere con ghirigori per pura leggiadria. E il Carmine non crollerà mai sulle sue frante fondamenta. Ogni cosa per sempre, allo stesso modo che è eterno il Circolo ex combattenti Montegrappa.

Fosse. Fosse anche aver camminato per mezza giornata sui crinali delle fortezze repubblicane, e dopo aver divorato da animale un pezzo di pane, buttarsi a pancia in giù a dormire nella steppa secca ai piedi dei coni di Fratello Maggiore e Fratello Minore. Sentir passare un gregge dall’odore della lana crespa. Sentire sulla mano il fresco umido del naso del loro cane. Sentire il fischio sardo del pastore. Sapere che stanno andando per Creto. E sapere che a Creto c’è un buco di trattoria dove questa sera potrei andare a mangiare il formaggio di quelle pecore. E un pezzo della loro madre arrostito sotto un tumulo di terra. Sapere che potrei con quella gente che incontrerò, i cugini del pastore che tira avanti senza nemmeno adocchiarmi, parlare di cokeria allo stesso modo che di pastura. Uomini che sono rimasti dopo la modernità, finito il tempo dell’acciaio, per tornare a ciò che sapevano da sempre e avevano già visto da bambini. Pastori di periferia, uomini un tempo istruiti alla fabbrica, ancora lettori di giornali indipendentisti. Gesti micenei, volti fenici, usanze barbaricine. E sapere che mi avrebbero salutato come un cugino e tenuto con loro tutto il tempo che avessi desiderato di risiedere nella libera nazione dei sardi di Genova. Terra franca di un porto franco.

Fosse soltanto. E sono le ore quattordici del giorno di Natale, la via Aurea è vuota. Vuota di turisti, vuota di auto di servizio, vuota di vigli urbani e di ogni e qualsiasi impedimento a una voce, una voce sola.

Qui, ora, ogni cosa è aurea, perfetta come l’austero gioiello di un doge della Repubblica. Anche la malinconia. Anch’io.

Che tutto ciò sia già stato sognato? Non ricordo. Di sicuro è bellezza di Genova casa mia.

(Maurizio Maggiani, “Mi sono perso a Genova. Una guida”, 2007)

1 Mulattiera, viottolo antico che s’inerpica dal mare al monte e dal monte al mare precipita
2 Sciocchino, in tono bonario. L’analogo “gundun” sta per “coglione” e può essere meno bonario
3 Vino bianco secco. La bianchetta è un vitigno autoctono ligure
4 Scagno è ufficio. Qui, per estensione, magazzino
5 Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie, Culmv, al porto di Genova