La fabbrica del consenso
Così il fascismo si mise in mostra
Negli ultimi tempi si parla tanto della capacità dei partiti di manipolare le persone e il loro immaginario per mezzo degli strumenti di comunicazione a disposizione, soprattutto usando il web. Per esempio, allo staff delle comunicazione – detto “la Bestia” – del leader della Lega Matteo Salvini è stato attribuito, per alcuni anni, il merito del successo sui social network. Ultimamente la Bestia ha un po’ la coda fra le gambe, perché tra i simpatizzanti di destra funziona meglio Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, partito post-fascista erede del MSI.
A proposito di fascismo, la sua scuola è stata assai all’avanguardia durante il Ventennio sul fronte della propaganda e della formazione del consenso. Tutto ha funzionato molto bene finché la Seconda guerra mondiale ha svelato all’opinione pubblica ciò che c’era dietro la facciata. È noto comunque che l’apparato di Mussolini seppe usare in modo innovativo, per la stabilizzazione autoritaria, mezzi di comunicazione allora nuovi. Ad esempio, la radio. Così come fin dalla marcia su Roma a questo scopo furono utilizzate moltissimo le immagini.
Oggi è meno noto che il regime sfruttò un altro sistema, sempre legato al potere dei media visivi, per cercare di realizzare il suo progetto di rivoluzione antropologica e arrivare all’’“uomo nuovo” fascista. Quel sistema era basato sulle mostre temporanee: più o meno grandi e più o meno durature, organizzate in tutta Italia e all’estero. Con quale scopo? Creare consenso, appunto; trasmettere valori e programmi; legare il passato (quello glorioso) a visioni del futuro (sempre radioso); far sparire dall’immaginario gli avversari, politici e “razziali”. Proprio alle mostre mussoliniane è dedicato il libro “Vedere il fascismo. Arte e politica nelle esposizioni del regime (1928-1942)”, scritto dalla professoressa Maddalena Carli, che insegna Storia contemporanea all’Università degli Studi di Teramo.
Nel volume la studiosa esamina la programmazione e la realizzazione di quelle iniziative, identificando gli artisti e gli architetti all’opera e decifrando i temi e i miti. Non dimentica di dedicarsi all’estetica delle sale e dei percorsi espositivi, documentata da oltre cento immagini. Emerge che le esposizioni – pur permeate di propaganda totalitaria – hanno consentito una sperimentalità capace di lanciare un nuovo modo di comunicare con il pubblico, portando l’Italia all’avanguardia in Europa sul fronte del design e dell’arte delle messinscena. Tanto da far competere la creatività italiana con le expositions universelles francesi, con altri grandi appuntamenti della modernità europea e anche con le maxi rassegne del costruttivismo sovietico.
La professoressa spiega che il regime di Benito Mussolini aveva già trovato pronto un apparato di mostre periodiche, voluto dall’Italia liberale. Pensò bene di mettere quel sistema a disposizione delle proprie esigenze, ampliandone le prospettive. Si vede così crescere una macchina già rodata. Nella versione fascista, tra l’altro serviva pure per inquadrare e controllare la produzione artistica italiana, premiando quella funzionale al progetto politico. Al vertice, c’era la Biennale di Venezia; seguita dalla Triennale di Milano e dalla Quadriennale di Roma. Alla base di questa piramide, ecco tante mostre annuali, ricalcate sull’organizzazione federale e territoriale del Partito nazionale fascista (PNF). A queste, nella prima metà degli anni Trenta, furono aggiunte manifestazioni non seriali e temporanee, dedicate a un tema specifico.
Tra le esposizioni tematiche, non può non essere citata la Mostra della rivoluzione fascista, svolta per tre volte nella Capitale e divenuta ben presto un modello. Si tenne per la prima volta nel 1932, nel decennale della marcia su Roma, all’interno del Palazzo delle Esposizioni; nel 1937 la replica, in occasione dei 2000 anni dalla nascita di Augusto, nella Galleria nazionale d’arte moderna; eccola di nuovo nel 1942 per il ventennale della marcia, sempre in Galleria. Altre mostre temporanee vennero dedicate a vari temi: dalla Roma antica all’aeronautica, da Leonardo da Vinci a Garibaldi, dall’autarchia alla politica assistenziale, dall’istruzione allo sport, dall’economia al tempo libero. Ulteriori rassegne di dimensioni ridotte furono destinate ai padiglioni italiani ospitati dalle esposizioni internazionali e universali, in Europa o fuori dal continente.
Chi – tra architetti, artisti e creativi – contribuì a questa impresa? Lo fecero quelli maggiori dell’epoca; più molti giovani emergenti, che si videro garantire il sostentamento – inteso proprio come la possibilità di campare – dalla macchina espositiva fascista. Tra gli architetti già famosi, c’erano Marcello Piacentini a Giuseppe Pagano. Tra i pittori celebri, Mario Sironi, Enrico Prampolini e Gino Severini. Tra i giovani artisti, vari destinati alla fama: come Adalberto Libera, Mario De Renzi, Luigi Moretti, Giuseppe Terragni, Gio Ponti, Bruno Munari, Corrado Cagli, Afro Libio Basaldella (Afro). Di certo, furono rivoluzionate le esposizioni; tanto che ancora oggi, nel XXI secolo, l’eredità di quel metodo e di quell’uso dell’immaginario segna il modo in cui sono concepite queste manifestazioni.
A proposito dell’eredità lasciata all’Italia post-fascista da quella lunga, vivace e variegata esperienza, va sottolineato che il libro della professoressa Carli non intende affatto circoscrivere il fenomeno al Ventennio, come se si fosse trattato di un “buco nero” tra Italia liberale e Italia repubblicana. La studiosa, anzi, sfrutta l’occasione per sottolineare un aspetto peculiare del fascismo sul fronte della dialettica interna al regime, che lo distingue da quello hitleriano e da quello staliniano. Il riferimento è alla scelta fascista di “farsi da sé la propria opposizione” – come ha scritto lo storico Gianpasquale Santomassimo (in La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Carocci, Roma, 2006) – “in vista della soppressione inevitabile di una opposizione autonoma”, perché “la dialettica possibile che deve essere consentita, e al limite anche promossa e organizzata, è tutta interna al fascismo”.
Anche sul fronte dell’arte e delle mostre era consentito l’eclettismo delle idee, purché non in contrasto con la linea del PNF. Una scelta accentuata, scrive Carli, dalla decisione di “Mussolini – su probabile consiglio di Margherita Sarfatti (1880-1961, letterata e critica d’arte, proveniente da una famiglia ebrea, negli anni ’10 diventò amante di Mussolini, pianificandone la politica culturale fino alla svolta delle leggi razziali, quando fuggì dall’Italia, ndr) – di non imporre uno stile ufficiale, come faranno il Reich nazista e l’Unione sovietica di Stalin”. Ciò favorì, per esempio, il fiorire di molte scuole pittoriche, dal quella futurista all’astrattismo, passando per la pittura murale di Sironi, e di varie visioni urbanistiche e architettoniche, dalla monumentalità di Piacentini all’architettura razionale del MIAR.
Come scrive la professoressa Carli, la questione non riguarda soltanto l’estetica. Tuttavia questo è il piano scelto da lei per affrontarla. Ovviamente, l’autrice non propone qualcosa che fu fatto di “buono” (o di cattivo) in questo campo come occasione per una scelta di campo. Semmai, nell’alveo corretto del suo lavoro di storica, spiega che “ricostruire e raccontare la storia delle mostre” le è sembrato “un modo per contribuire a storicizzare il moderno del fascismo, tentando di individuare i fili che lo legano al presente ma anche le profonde differenze che ne fanno un’esperienza inevitabilmente altra e lontana nel tempo”.
Maddalena Carli, Vedere il fascismo. Arte e politica nelle esposizioni
del regime (1928-1942), Carocci, Roma, 2020.
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