“Dittatura sanitaria”?
Ipotesi surreale
nel paese delle scemenze

Torna l’obbligo su tutto il territorio nazionale di indossare la mascherina anche all’aperto e si inaugura la forte raccomandazione a evitare un convivio in casa con più di sei persone (senza pensare di inviare, dunque, i carabinieri a controllare) e già si parla di una inedita “dittatura sanitaria”.

Ci sono vari argomenti per confutare questa tesi francamente surreale. Il primo e più immediato è questo: quale dittatura sanitaria potremmo mai avere nella felice Italia del caos? Anche in materia sanitaria ognuno va per sé: parlamento nazionale, regioni, comuni, scuole, aziende pubbliche e private. Anche se ha dichiarato e più volte prolungato lo stato di emergenza il governo non ha nessuna possibilità di ergersi a dittatore. Un dittatore che sarebbero poi il burattino di un improbabile burattinaio, il Comitato tecnico-scientifico che in ogni momento è sottoposto a critiche (ingenerose) non solo da minoranze più o meno organizzate, ma anche da ricercatori e medici che manifestano il loro pensiero su ogni mezzo di comunicazione di massa.

Un precedente, la peste

Un secondo motivo che rende surreale l’ipotesi di “dittatura sanitaria” riguarda le misure, sanitarie, appunto, adottate. L’isolamento per contrastare una pandemia esiste in Italia da quasi sei secoli. È nel 1448, infatti, che il Senato di Venezia (città libera per antonomasia) inventò portò la contumacia per motivi sanitari, ovvero di prevenzione del contagio di malattie infettive, a quaranta giorni. Da quasi un secolo, infatti, l’isolamento coatto – la contumacia – era stata stabilito a trenta giorni (prima ad adottarla fu la città di Ragusa, Dubrovnik, nell’odierna Croazia). Nessuno, che ci risulti, gridò allo scandalo e all’attentato alla libertà per quella decisione: memori, forse, dalla diffusione incontrastata dell’agente infettivo della peste che aveva sconvolto l’Europa nel 1348 causando la morte di almeno un terzo della sua popolazione.

La storia ci narra di ben poche reazioni di principio e di fatto a quelle norme tese a difendere la salute della popolazione. Anche Galileo Galilei, a quasi settant’anni, malato e perseguitato dovette accettare la quarantena, ovvero una forte restrizione della sua già ridotta libertà. Nel gennaio 1633, infatti, dovette recarsi da Firenze a Roma per ordine dell’Inquisizione (essa sì definibile come “dittatura religiosa”) e poiché in Toscana c’era un’epidemia di peste, per quanto non devastante, lo Stato Pontificio impose la quarantena a chiunque venisse da fuori, un po’ come è successo tra le regioni italiane all’inizio della pandemia. Ebbene, per quanto malridotto nel fisico e per quanto costretto, Galileo non gridò alla “dittatura sanitaria”, ma si limitò a lamentarsi delle squallide condizioni della stazione di posta che fungeva da locanda in cui aveva alloggio, a Centeno nel comune viterbese di Proceno. Le lamentele dello scienziato toscano si limitarono a denunciare l’umiliazione della condizione in cui si trovava e, soprattutto, del vitto: nell’alloggio coatto si mangiavano solo uova.

Che cosa hanno fatto Regioni e governo?

Se vogliamo trarre una morale da questa storia galileiana, possiamo dire che è lecito e giusto lamentarsi dei modi in cui i decreti del governo o delle regioni vengono concretamente implementati, ma non del dovere oltre che delle istituzioni democratiche a contrastare la diffusione di una malattia che può essere molto seria, persino mortale.

Per esempio è lecito chiedersi cosa hanno fatto le singole regioni e il governo per non trovarsi di nuovo impreparati a una recrudescenza di COVID-19.

Ma c’è un terzo argomento che induce a considerare surreale l’accusa di “dittatura sanitaria” oggi in Italia. Decisioni come quelle prese dal governo, in sostanziale accordo con le regioni e con l’indicazione del Comitato tecnico-scientifico, sono state prese in svariati paesi europei: tranne piccole minoranze, nessuno ha gridato alla dittatura. Anzi, in quei paesi in cui misure relativamente drastiche non sono state prese del tutto o non sono state prese in tempo hanno pagato salatissimo in termini di contagi, di terapie intensive e di morti evitabili.

Enrico Montesano (no mask) con Salvini

Il quarto e definitivo argomento è che non tutti i diritti delle persone sono equiparabili. Senza pretendere di ragionare in punta di diritto costituzionale, appare evidente a tutti che se ne sono di più uguali degli altri. Ovvero, che esiste una gerarchia dei diritti. Quello del diritto alla vita e alla salute sono diritti gerarchicamente più in alto del diritto del diritto a passeggiare in centro senza mascherina o di partecipare a convegni con centinaia di persone. Se il diritto alla salute o addirittura alla vita è in discussione, quello alla passeggiata con mascherina o alla partecipazione al concerto della rockstar deve cedere necessariamente il passo.

Naturalmente ci vuole equilibrio La minaccia – come è il caso della recrudescenza della pandemia – deve essere reale.

Una cosa, però, dobbiamo chiederla allo stato nelle sue diverse articolazioni quando c’è una crisi che impone di tener conto di questa gerarchia tra diritti: la trasparenza e la buona comunicazione. Lo stato non deve imporre, se non quando è necessari, ma deve cercare sempre di convincere. Certo non i termini paternalistici, ma fornendo tutti gli strumenti e le informazioni utili a esercitare lo spirito critico dei cittadini.

Se questo venisse fatto – e purtroppo non è stato sempre fatto con la necessaria lucidità e sistematicità – allora tesi come quella della “dittatura sanitaria” in Italia apparirebbero immediatamente a tutti per quello che sono: surreali, appunto.