La difesa del voto
all’unanimità è il vero
obiettivo dei sovranisti
Il progetto politico, nel senso delle alleanze e degli schieramenti, non funziona perché non può funzionare: il gruppo unito dei sovranisti al parlamento europeo non si farà. Il motivo, in fondo, è molto semplice, quasi banale: i partiti che dovrebbero dargli corpo sono molti e molto diversi fra loro, ma hanno il tratto comune del suprematismo nazionale (o regionale, in qualche caso). Se il tuo slogan è “prima i nostri” escludi automaticamente la possibilità di qualsiasi contemperamento degli interessi con quelli che non siano “nostri”. Tanto è forte la contraddizion che nol consente che vale anche dentro il consesso di nazioni che pure si presenta e si accredita sulla scena europea come il più compatto e coeso, quello di Visegrád. Viktor Orbán e il premier polacco Mateusz Morawiecki non perdono occasione per celebrare l’amicizia reciproca e le loro affinità ideologiche, ma in realtà i due regimi si contrappongono radicalmente su un aspetto fondamentale dei propri sistemi di alleanze fuori dell’Unione: il rapporto con la Russia di Putin. Utile alleato contro le prepotenze di “quelli di Bruxelles” per gli ungheresi, estrema epifania politica di un’inimicizia eterna per i polacchi. Al punto che il grande vecchio del regime di Varsavia, Jarosław Kaczyński, va ancora denunciando nelle sue uscite pubbliche il complotto putiniano che sarebbe costato la vita al suo fratello gemello Lech nel disastro aereo di undici anni fa a Smolensk. Quanto il nodo dell’atteggiamento verso la Russia possa influire, in negativo, sugli afflati unitari delle varie destre sovraniste, d’altronde, fu reso plasticamente evidente dalla clamorosa freddezza con cui, durante la campagna elettorale per le europee, fu accolto a Varsavia Matteo Salvini che era andato a cercare sponde laggiù proprio mentre, incautamente, in quei giorni andava proclamando che a Mosca si sentiva più a casa che a Bruxelles.
Contraddizioni e incompatibilità
Il cenno alle divisioni dalle parti di Visegrád è solo un esempio. In realtà chiunque si prenda la briga di indagare dentro il variegato panorama della destra più o meno nazionalista e sovranista d’Europa ha di che riempire il suo carnet di contraddizioni e incompatibilità reciproche. Non ultime quelle tutte italiane. Tra i motivi per cui attualmente le destre sono divise tra due gruppi ben distinti, l’ERC dei cosiddetti Conservatori e Riformisti (sic) Europei, che dopo la dipartita dei conservatori polacchi comprende il Pis di Kaczyński, Fratelli d’Italia e varie formazioni ultraconservatrici, e ID, Identità e Democrazia, con i lepeniani francesi, i radicali di destra di Alternative für Deutschland e altri partiti e partitelli nazionalisti o secessionisti insieme con la Lega italiana c’è anche (e soprattutto) l’impossibilità della convivenza sotto lo stesso tetto di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Incompatibilità che esisteva fin dall’inizio ma che è andata aggravandosi con l’acuirsi della gara per la supremazia tra i due in Italia.
Forse è stata proprio la consapevolezza del fatto che il progetto politico del gruppo unico non ha grandi chance a suggerire agli esponenti sovranisti una via di fuga laterale. Come dire: se la strategia politica non funziona, proviamo con la strategia culturale. Ed ecco, promosso e sponsorizzato da Orbán e dal suo circolo di teorici della “democrazia illiberale”, il Manifesto dei sovranisti europei, la cui stesura fu concordata nell’aprile scorso in un incontro tra lo stesso leader ungherese, Morawiecki e Salvini a Budapest.
Il testo uscito nei giorni scorsi, in realtà, riflette tutta la debolezza della base politica da cui è sortito e, tanto per cambiare, di una irrisolta contraddizione. Quella tra l’intenzione di costituire la piattaforma dell’opposizione all’Europa così com’è e la propensione a cercare sponde nell’universo del conservatorismo confessionale e un dialogo con il PPE. Così si denuncia “l’iperattivismo moralista” che si sarebbe imposto nelle istituzioni dell’Unione portando una “pericolosa propensione a imporre un monopolio ideologico”, cosicché l’Unione starebbe diventando “lo strumento di forze radicali che vorrebbero realizzare una trasformazione culturale e religiosa” e si contrappongono i valori della famiglia e della demografia “naturale” alla trasformazione dovuta all’”invasione” dei migranti. Ma poi arriva il punto vero, la sostanza forte del pensiero sovranista: “La cooperazione europea sta vacillando perché le nazioni si sentono lentamente spogliate del diritto di esercitare i loro poteri sovrani”. È la cessione di sovranità che le istituzioni di Bruxelles cercano di imporre la causa della crisi, il nemico da sconfiggere. La salvezza dell’Europa è tutta nella prospettiva di “permettere il libero sviluppo delle nazioni”, restituendo loro la sovranità che i “burocrati” vogliono sequestrare. Quindi non c’è da cercare alleanze dentro l’Unione: è il modello che va distrutto.
L’unico, vero motivo politico
Qui è il vero nocciolo duro del pensiero sovranista, l’unico vero motivo politico, a dirla proprio tutta, per cui il Manifesto è stato scritto, con il suo contorno di paccottiglia ideologica e di ammiccamenti al moderatismo confessionale: per salvare l’autorità degli stati è necessario salvaguardare lo strumento del voto all’unanimità.
Il tempismo è evidente. La questione dell’unanimità o del voto a maggioranza (qualificata o no) nelle decisioni del Consiglio europeo è al centro della conferenza sul futuro dell’Europa che sta muovendo i primi passi e si va rafforzando lo schieramento, politico e culturale, di chi ritiene che il passaggio sia inevitabile se si vuole che la prospettiva dell’integrazione, se non la vita stessa dell’Unione europea, abbia un futuro. I passi più recenti dell’iniziativa della Commissione e del Parlamento europeo sotto la spinta della tragedia della pandemia, con la mutualizzazione del debito e le procedure per la realizzazione del Next Generation EU sono andati in questo senso. Per i sovranisti europei il pericolo è evidente: senza voto all’unanimità cadono le loro possibilità di bloccare con il veto la condanna delle pratiche liberticide dei governi “illiberal-democratici” in base all’articolo 7 del trattato europeo, mentre è già caduta, grazie all’iniziativa della Corte di Giustizia, del parlamento e della Commissione la possibilità di mettere il veto nel consiglio e poi nel Consiglio europeo alle sanzioni che puniscono i paesi che non rispettano lo stato di diritto e i valori fondamentali dell’Unione.
La meschinità della manovra è stata messa in luce non solo dal tempismo del Manifesto, ma anche dalla sfacciata disinvoltura di Salvini che a Bruxelles ha fatto votare i suoi contro la procedura d’infrazione nei confronti del governo ungherese per la scandalosa legge contro gli omosessuali nelle stesse ore in cui a Roma diceva di essersi convertito alla necessità di una legge contro l’omofobia purché non fosse il disegno di legge Zan.
Però attenzione: per quanto possa apparire miserabile il gioco politico dei sovranisti, non ci sono solo loro sul campo della difesa delle sovranità nazionali blindate con l’unanimità del voto. Gran parte dei governi europei sono schierati sullo stesso fronte e potrebbero giovarsi dell’improprio appoggio di quegli scomodi compagni di strada. La battaglia è aperta e sarà dura.
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