Meloni sogna il ribaltone, ma l’Europa delle Nazioni non è dietro l’angolo
Qualche saggio consigliere dovrebbe ammonire gli esponenti più in vista della destra italiana a non esagerare con gli annunci di future, inevitabili vittorie. Ormai non c’è talk show, trasmissione politica o articolo di giornale “amico” che non disegni le magnifiche sorti e progressive di Meloni, Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia deberlusconizzata and company dopo le elezioni europee della primavera del prossimo anno: grande affermazione della destra (ancora sovranista, ma senza per il momento sottolinearlo troppo), abbraccio con un più debole Partito Popolare Europeo falcidiato dagli elettori, rovesciamento delle alleanze su cui si reggono attualmente gli equilibri nelle istituzioni brussellesi, via gli odiati socialisti e gli infidi liberal-democratici, poteri della Commissione ridimensionati a vantaggio del Consiglio inchiodato ai voti all’unanimità e avvio di un radioso cammino verso l’Europa delle Nazioni, quella dei governi che comandano e degli interessi nazionali che prevalgono.
Weber e l’intervista al “Corriere”
Questo sogno di casa nostra ha anche dei protagonisti. O dei co-protagonisti, visto che – va da sé – il ruolo di levatrice dei Nuovi Equilibri viene riservato, almeno in Italia, a Giorgia Meloni. Fino a qualche settimana fa girava molto il nome di Roberta Metsola, la presidente del Parlamento di Strasburgo tra le autorità di Bruxelles la meglio disposta, fin dall’inizio, verso la leader del nuovo governo italiano. Poi però si è fatta avanti prepotentemente una vecchia conoscenza: il presidente del gruppo popolare europeo Manfred Weber, cristiano-sociale bavarese.

Il suo flirt politico con la capa della destra italiana dura da qualche tempo e, a voler essere proprio maliziosi, si sarebbe anche saldato nella comune ripugnanza contro il putinismo sfacciato di Berlusconi. Qualche settimana fa fu proprio il tedesco a fare quello che l’italiana non poteva osare perché avrebbe messo a rischio il governo: dopo una sua esternazione particolarmente indecente sputtanò pubblicamente l’amico dello zar mandando a monte un importante appuntamento del PPE a Napoli. La corrispondenza di amorosi sensi è culminata, qualche giorno fa, in un’intervista al Corriere della sera in cui Weber ha sposato in tutto e per tutto le durezze del governo di Roma sull’immigrazione e criticato la Commissione che non le condivide. Una prova d’amore ingenua e un po’ imbarazzante, non solo per lui ma anche per il giornale che ha retto la candela.
Sarebbe dunque Weber l’uomo chiave del Grande Ribaltone? Per lui sarebbe una straordinaria rivincita. Forse non tutti lo ricorderanno ma alle ultime elezioni europee, nel maggio del 2019, il bavarese era stato presentato come lo Spitzenkandidat del PPE, cioè l’uomo che in base a una certa interpretazione dei Trattati avrebbe dovuto diventare il presidente della Commissione se il suo partito fosse arrivato primo. La conferma, però, sempre secondo i Trattati, spettava comunque ai governi e il veto sul suo nome messo per la Francia da Emmanuel Macron riaprì i giochi e portò alla fine all’elezione di Ursula von der Leyen. Un colpaccio per riprendersi dal quale Weber, intanto fatto assurgere alla presidenza del gruppo parlamentare popolare, ha sofferto parecchio, fino allo schiudersi della luminosa prospettiva di una resurrezione politica, prospettatagli si dice durante un incontro molto riservato con Meloni durante una visita a Roma, come guida del fatidico ribaltone al posto di Roberta Metsola. Come l’abbia presa quest’ultima, e se davvero avesse sperato di essere lei la prescelta, non si sa.
Il colpo più duro
Ma perché l’operazione Weber vada in porto l’uomo dovrebbe contare sull’appoggio unanime del proprio gruppo e su quello almeno maggioritario del proprio paese. Al momento non ha né l’uno né l’altro. Anzi, per dirla tutta, non ha neppure l’appoggio incondizionato del proprio partito, la CSU. Il presidente dei cristiano-sociali Markus Söder, che è anche il Ministerpräsident della Baviera, è in aperta polemica con lui fin dall’indomani delle elezioni italiane e l’ostilità tra i due è destinata ad accrescersi in vista delle elezioni bavaresi previste per il prossimo ottobre (più oltre vedremo perché).

Ma il colpo più duro, nei giorni scorsi, gli è venuto proprio da colei che sognava di poter sostituire l’anno prossimo alla guida della Commissione. In un vertice della CDU a Berlino Ursula von der Leyen ha ottenuto l’impegno del partito a sostenere la sua ricandidatura, stavolta come Spitzenkandidatin. Il suo partito deve nominarla – ha sintetizzato lei stessa così la situazione – il PPE deve volerla e, soprattutto, il governo di Berlino deve sostenerla. È molto probabile che le tre condizioni vengano esaudite, anche la terza. Il governo federale è composto da SPD, liberali e Verdi con la CDU e la CSU all’opposizione ma la coalizione ha tutto l’interesse che a Bruxelles il potere sia nelle mani di una tedesca che, oltretutto, è stata sostenuta finora da una maggioranza in cui, assieme ai partiti democristiani, ci sono tutte e tre le componenti del governo federale. Per quanto le vicende della guerra in Ucraina abbiano in parte modificato le posizioni della attuale presidente della Commissione, rendendola meno dura nei confronti delle “disobbedienze” sovraniste della Polonia, non c’è dubbio che la riconferma di Ursula von der Leyen favorirebbe la riproposizione dell’equilibrio politico di cui la sua elezione è stato il frutto: la grande coalizione popolari-socialisti-liberaldemocratrici.
Il possibile affondamento dell’ipotesi Weber rischia di trascinare con sé le eccessive certezze della destra italiana, fiancheggiatori nei media compresi, sul futuro ribaltone. Ma la colpa (si fa per dire) non va attribuita solo allo sfortunato rampante ingegnere di Niederhatzkofen che da 15 anni tenta invano la scalata alla presidenza della Commissione (cominciò candidandosi contro Jean Claude Juncker nel 2008). Anche se si presentasse, o ripresentasse, l’ipotesi Metsola, resterebbero comunque due elementi di debolezza alla base del disegno di una grande alleanza destra sovranista – centristi popolari.

Le differenze in seno al PPE…
Il primo è la natura stessa del gruppo popolare e del partito popolare europeo che comprende la bellezza di 84 formazioni di 43 paesi di cui il gruppo a Strasburgo è l’espressione parlamentare. Dietro le varie formule con cui i popolari europei si autodefiniscono – moderati, liberal-conservatori, centristi e via elencando – si nascondono differenze ideologiche e culturali profonde ed è molto dubbio che la prospettiva di un’alleanza con una destra radicale verrebbe accettata da tutti. Le opposizioni non mancherebbero, specialmente a parte delle formazioni che più si richiamano ai valori del solidarismo cristiano come alcuni partiti del nord Europa o la stessa componente d’ispirazione cattolico-renana nella CDU tedesca. Soprattutto se gli interlocutori si presentassero con un’evidente connotazione sovranista e, per dirla con un’espressione generica, “antieuropeista”. Una chiara impostazione altrettanto genericamente “europeista”, favorevole cioè allo sviluppo dell’integrazione politica, è infatti forse l’unico elemento politico-ideologico davvero unificante della variegata galassia popolare. A questo proposito, per avere un’idea dello spirito prevalente nel gruppo popolare si può richiamare la forte maggioranza con cui gli europarlamentari del PPE (non quelli di Forza Italia) votarono a suo tempo la sospensione di Fidesz, il partito di Orbán, che alla fine lasciò spontaneamente il gruppo.
Ma non ci sono soltanto le ragioni culturali e ideologiche a rendere difficile l’alleanza con la destra-destra. Molti partiti di centro dovrebbero temere da una simile prospettiva ripercussioni politiche negative sul piano elettorale domestico. La ragione dell’ostilità che Weber ha suscitato recentemente nel suo stesso partito deriva anche dal fatto che le sue aperture, a Berlusconi (nonostante il suo putinismo) durante la campagna elettorale italiana e ora a Meloni, rischiano di scoprire il fianco della CSU nei confronti della destra estrema di casa, la Alternative für Deutschland che potrebbe confermarsi una pericolosa concorrente alle prossime elezioni in Baviera. Söder pare aver raccolto l’eredità del mitico Franz Josef Strauß, il quale predicava la necessità che a destra della CSU ci fosse sempre soltanto il muro.
…e alla destra sovranista
Il secondo elemento di debolezza sono le divisioni all’interno della galassia nazionalista-sovranista e la loro natura. Anche in questo caso, una certa faciloneria nelle esternazioni dei politici e nei commenti degli osservatori ha portato a semplificare brutalmente il panorama dei partiti europei presentando sic et simpliciter come “conservatore” il partito europeo di cui Meloni è presidente dal settembre del 2020. In realtà si tratta di una formazione molto eterogenea che di conservatorismo nel senso in cui siamo abituati a parlarne (e che le è rimasto dall’antica presenza dei Tories britannici) ha molto poco e nella quale soltanto tre sono i partiti nazionali che hanno davvero un peso politico: Fratelli d’Italia, il PiS polacco e la spagnola Vox. Per il resto si tratta di un coacervo di partiti, partitini e movimenti di nessuna rilevanza, in genere ultranazionalisti o ultraregionalisti, xenofobi, razzisti, islamofobi, talora omofobi (https://www.strisciarossa.it/gli-alleati-conservatori-di-meloni-in-europa-una-scombinata-comitiva-di-estremisti-di-destra/).
Una buona parte della destra europea è in un’altra formazione, quella che esprime il gruppo parlamentare di Identità e Democrazia in cui militano la Lega italiana, il Rassembement National di Marine Le Pen, i tedeschi di Alternative für Deutschalnd, la FPÖ austriaca che fu di Jörg Haider, i Veri Finlandesi, gli indipendentisti fiamminghi e altri, tutti caratterizzati da un notevole grado di euroscetticismo. A ben vedere, sono loro che rappresentano più dei sedicenti “conservatori” lo spirito del sovranismo contro l’idea d’Europa.
Che parte avrebbero questi sovranisti “genuini” nel grande ribaltone immaginato da Meloni? Entrerebbero nel gioco smentendo la loro radicale alterità ai “burocrati di Bruxelles”? Resterebbero all’opposizione, proponendo in Europa, a parti invertite, lo stesso dualismo fuori e dentro le istituzioni che c’era in Italia col governo Draghi e che è costato milioni di voti a Salvini e ha fatto le fortune di Meloni?
Attenzione, perciò, a evocare con tanta superficialità la profezia di un radicale ribaltone degli equilibri a Bruxelles e la conseguente liquidazione della struttura politico-istituzionale che è stata faticosamente costruita dagli europei negli anni. Non sempre le profezie si autoavverano, ma qualche volta sì. La sinistra e gli europeisti debbono sapere che il rischio c’è e cominciare ad occuparsene seriamente.
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