La crisi oggi e domani:
doppia partita
dentro le scatole cinesi

Esci dal portone, nel pieno centro di Torino, e la prima visione è quella della lunga fila della serrande chiuse dei negozi. Coloro che le hanno abbassate li conosci quasi tutti, lo hanno fatto senza gesti scomposti, nella speranza che possa essere utile, pochi giorni fa. Ma è inevitabile chiedersi: chi di loro riuscirà a sopravvivere? La piccola agenzia di viaggi chiusa senza più avere un solo ordine da gestire? Il piccolo bar-osteria (ottima cucina) a conduzione familiare? Quindici giorni senza incassi sono lunghissimi.

Il tabaccaio è invece aperto: entro a mezzogiorno e sono il primo cliente, non un gran cliente, purtroppo, non fumando. Ho bisogno di una decina di fotocopie del foglio di autocertificazione per i movimenti, tante persone anziane sole me lo hanno chiesto, angosciate dalla prospettiva di essere fermate dai vigili. “Devo tenere aperto, le spese corrono (l’auto per venire a lavoro, la luce nel negozio) e non viene nessuno. Ho speso tanti soldi per avere un distributore efficace fuori, adesso possono anche ricaricare i telefoni. Posso scegliere di chiudere, ma se lo faccio, se un giorno ci saranno aiuti economici, perderei il diritto di riceverli. Capisco i provvedimenti, cerchiamo di sconfiggere questo virus, ma tra quindici giorni, un mese, speriamo che il governo, lo Stato sappiano aiutarci”.

Una crisi nelle scatole cinesi

coronavirusEsco e mi viene in mente quello che ho ripetuto tante volte in questi anni ai miei studenti a Grenoble in Francia facendo dei corsi sul concetto di democrazia: “Il 2008, una crisi finanziaria, che è poi diventata una crisi economica, quindi sociale e infine politica”. Le insidiose “scatole cinesi” – per usare un termine finanziario – delle crisi: una ne può contenere molte altre. In questo caso quella sanitaria ne include una economica e quindi sociale.
Insomma, cammini per andare al mercato rionale e pensi davvero che siamo solo all’inizio, che a inizio aprile non solo ci sarà il picco dei contagi, ma giungerà anche un momento politico delicatissimo. Poche persone in giro, da lontano riconosco un mio “maestro” ai tempi dell’Università; un “soggetto a rischio” come si presenta, parliamo da lontano e lui è preoccupatissimo: “che situazione! Ma anche se qui andasse bene… e se poi il virus ritorna dai paesi vicini, cosa faremo?”.

Le sue parole mi sono venute in mente quando qualche ora fa ho avuto notizie della famiglia di mia cugina. Vivono in Nuova Zelanda, lei insegna lì, suo marito invece in Cina. L’inizio della crisi in Cina coincideva con le vacanze ed era rientrato a casa loro. Da quel momento ha fatto lezione a distanza, in questi giorni si preparava a tornare in Cina ma l’Università lo ha invitato a non muoversi: qui da noi va meglio, ma non possiamo correre il rischio che qualcuno possa riportare il virus dall’esterno.

Pensando ai malati, anche quelli “normali”

Fare la spesa coincide con l’unica uscita da casa, vicino al mercato c’è una clinica dove è ricoverata una persona cara, che ha avuto un infarto tre settimane fa. È stata in un reparto di terapa intensiva per dieci giorni, c’erano ancora letti disponibili. È stata ben curata e per fortuna ha potuto essere trasferita per la riabilitazione il giorno prima che nell’ospedale si trovassero dei casi di coronavirus. La clinica è chiusa alle visite esterne, comunichiamo per telefono, ma è in sicurezza e ben seguita. Mi chiedo se oggi quel posto in terapia intensiva ci sarebbe ancora ed è anche pensando alle persone che l’hanno curata che cerco di rispettare con il massimo scrupolo le indicazioni del governo.
Ho quindi seguito da lontano le vicende nella mia università, a Grenoble. Negli ultimi giorni stava crescendo la tensione a causa della diversa situazione in due paesi così vicini. La “comunità italiana” era molto inquieta, infastidita da quella che ritiene una sottovalutazione “cinica “ del problema.

Nel discorso di Macron vale la pena sottolineare un passaggio: “Occorrerà, domani, trarre la lezione dal momento che viviamo, interrogarci sul modello di sviluppo seguito dal nostro mondo negli ultimi decenni e che svela, nel momento della crisi, le debolezze della nostre democrazie. Quello che rivela, già da oggi, questa pandemia, è che la sanità pubblica, garantita a tutti senza differenze di condizioni economiche, di percorsi o di professioni, il nostro “Etat-providence”( Stato sociale) non sono dei costi o dei pesi, ma dei beni preziosi, delle risorse indispensabili quando il destino colpisce. Quello che rivela questa pandemia, è che ci sono dei beni e dei servizi che devono essere al di fuori della legge del mercato. Delegare la nostra alimentazione, la nostra protezione, la nostra capacità di curarci, il nostro quadro di vita ad altri, è una follia”.

Le parole di Macron, a futura memoria

coronavirusSono parole impegnative, pronunciate da un dirigente politico duramente contestato nei mesi scorsi da medici e infermieri per la sua politica economica che colpiva anche il sistema sanitario pubblico. Verrebbe voglia di registrarle sotto il titolo: “A futura memoria”!
Ma sono anche il segno della partita che si sta giocando dentro questa emergenza. Come sempre in questi momenti, nelle situazioni di crisi e di conflitti, si giocano due partite allo stesso tempo: la prima contro il pericolo presente, la seconda per preparare il futuro. Si può giocare insieme la prima, ma avere due progetti completamenti diversi per il dopo.

La partecipazione di noi tutti

Da una crisi come questa vi puo’ essere un’uscita positiva, malgrado i costi enormi, se si sarà capaci di ripensare il modello generale delle nostre società, le politiche economiche e ambientali, il funzionamento dell’Unione europea. Oppure uno negativo, che usa la crisi, in realtà, per rafforzare invece le scelte del passato, presentandole sotto la maschera dell’emergenza, limitando ancora di più diritti e libertà e andando più lontano nelle scelte liberiste. Penso, dunque, che siamo solo all’inizio di una lunga e delicata fase, dagli esiti incerti.

Per questo non si può lasciare da solo il governo e occorre cogliere e interpretare i segnali che giungono dalle persone che abitano intorno a noi. Qualche mese fa il raggrupparsi in molti, fianco a fianco, nelle piazze è stato un segnale della volontà di partecipare e di non rassegnarsi; oggi, anche restando lontani un metro e mezzo e dalle nostre case, dovremmo essere capaci di una cosa simile: perché questa battaglia abbia l’esito migliore possibile, occorre che ciascuno di noi la combatta con la consapevolezza che occorre la partecipazione attiva e creativa di ciascuno di noi.