Cooperazione
multilaterale
contro le crisi all’est

La bieca “guerra ibrida” scatenata dal dittatore Lukashenko utilizzando i profughi come arma contro l’Unione europea e la NATO per interposta Polonia è (o è stata) telecomandata da Mosca? I grandi movimenti delle truppe russe a ridosso del Donbass sono la premessa di una guerra, vera questa, che Putin sta preparando contro l’Ucraina? E si tratterebbe di una guerra per mettere in ginocchio l’antica provincia ricca e ribelle dell’Impero oppure di un conflitto limitato, vòlto a costringere Kiev ad accettare una soluzione che contemperi la sovranità ucraina con uno statuto speciale di autonomia per i due distretti, quelli di Donietsk e di Lugansk, a maggioranza russa?Profughi al confine Bielorussia Polonia

Sono le domande che si pongono, da settimane, gli analisti di politica internazionale e i diplomatici delle cancellerie occidentali. Ma, più ancora di come è successo in passato, gli assetti di potenza all’est dell’Unione europea sfuggono ai criteri di certezza e di prevedibilità di cui in questa parte del continente e oltre l’Atlantico avremmo invece un grande bisogno, soprattutto in questo momento di crisi indotta dalla pandemia.

All’inizio della crisi dei profughi al confine polacco innescata dal regime di Kiev “arruolando” cinicamente i disperati in fuga da guerre e micidiali instabilità per sostenere il proprio ricatto, quasi tutti gli osservatori erano convinti che l’operazione di Lukashenko fosse concordata con Mosca, se non addirittura orchestrata per conto di Vladimir Putin. Che l’autocrate russo stia conducendo anch’egli una guerra ibrida contro l’Unione europea a colpi di agguati telematici, assalti di hacker “di stato”, di disinformacjia in stile sovietico e di appoggio a partiti e partitini anti-UE, insieme con i più tradizionali metodi dello spionaggio d’antan, è evidente da molto tempo. Almeno dal 2014, per fissare una data, quando il colpo di mano in cui ha “riannesso” la Crimea alla Russia ha fatto scattare le sanzioni da parte occidentale. Era più che legittima, perciò, la supposizione che ci si trovasse di fronte a una specie di provocazione “per procura” affidata al dittatore di Minsk che sarebbe nient’altro che una marionetta i cui fili vengono tirati a Mosca.

Scenario plausibile

È uno scenario plausibile, che en passant spiega anche la particolare durezza con cui i polacchi hanno reagito alla provocazione, facendone pagare il prezzo salatissimo ai poveri cristi che si sono trovati in mezzo con le odiose angherie cui li hanno sottoposti, ma non è detto che sia vero, o almeno del tutto vero. Diversi osservatori, per esempio in Italia Lucio Caracciolo con la sua rivista “Limes”, non sono affatto convinti che a Mosca e a Minsk stia andando in scena una commedia delle parti. Lukashenko è, sì, uno strettissimo alleato della Russia, l’unico, ormai, nella parte europea dell’ex Unione Sovietica, ma non è detto che non esistano tra i due autocrati motivi di frizione. Probabilmente esistevano anche prima che – come vedremo tra poco – si delineasse un sostanzioso contrasto d’interessi, tant’è che pur non avendo fatto mancare al compagno di Minsk pubbliche manifestazioni di appoggio, Putin è stato con lui piuttosto tiepido. Ha detto per esempio che per risolvere la crisi non serve più di tanto la collaborazione tra i governi bielorusso e russo e, dopo che si è diffusa la notizia di una telefonata dell’ancora cancelliera Merkel a Lukashenko, il portavoce del Cremlino Dimitrij Peskov ha invitato il bielorusso a prendere lui l’iniziativa dei contatti diretti con le cancellerie europee e con le autorità di Bruxelles.

Tanta moderazione era solo una finta? Può anche essere, ma certo non è stata una finta il brutale monito che dal Cremlino è stato fatto arrivare a Minsk quando il dittatore ha minacciato di chiudere le paratie dei due condotti, il Druzhba nord e il Druzhba sud, che, biforcandosi proprio in territorio bielorusso, portano in Europa una parte consistente del gas estratto in Siberia. Non facciamo scherzi – ha detto in sostanza Putin – una minaccia del genere sarebbe una “mossa troppo emotiva” e se Minsk arrivasse a compierla davvero “ci sarebbero conseguenze” nei rapporti tra i due paesi. Si tratta di un linguaggio che di solito si usa con gli avversari, non certo con i vassalli obbedienti.

Il gas. Ecco una chiave importante per decifrare quel che sta avvenendo nell’inquieta realtà oltre i confini orientali dell’Unione europea. Druzhba in russo vuol dire amicizia e il gasdotto, lungo 4 mila chilometri, si chiama così perché porta il prezioso combustibile in quelli che una volta erano i paesi “amici” dell’Unione Sovietica e cioè i satelliti dell’Europa orientale. Dopo la caduta dell’impero sovietico, la quota di gas destinata alla DDR è stata “ereditata” dalla Germania riunita e oggi copre una parte non irrilevante del fabbisogno tedesco. In teoria, la sua importanza dovrebbe essere fortemente ridimensionata quando entrerà (se entrerà) in funzione il Nordstream che, passando sotto il Baltico ben al largo di Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, porterà direttamente dalla Russia il gas siberiano in Germania. Ma si sa che intorno al Nordstream, che è praticamente finito, è in atto una feroce contesa con gli americani, i quali vedono come un pericolo grave la dipendenza troppo forte dalle forniture energetiche russe nella quale verrebbero a trovarsi la Germania e un bel pezzo di Europa. Senza contare gli svantaggi concorrenziali per la produzione di idrocarburi con il metodo del cracking che gli americani stanno sviluppando da qualche tempo.

Per la Federazione russa si tratta di una partita decisiva che riguarda il futuro: con un trend mondiale che, pur tra molte e gravi contraddizioni, sta andando verso fonti alternative agli idrocarburi c’è una evidente necessità di capitalizzare al massimo nei tempi più brevi possibili una risorsa che copre una parte essenziale della ricchezza del paese. L’establishment politico dell’occidente ne dovrebbe tener conto. Non sarebbe un ingiustificato atteggiamento di indulgenza verso l’attuale guida del Cremlino, ma il riconoscimento di un oggettivo interesse che verrebbe considerato come tale da ogni possibile altro assetto di potere al vertice della Russia. Putin ha molte e gravi colpe per quanto attiene al mancato rispetto dei diritti umani in patria e all’aggressività della sua politica estera, ma è dubbio che un altro leader più democratico e più rispettoso del diritto internazionale potrebbe ignorare i fondamentali interessi economici e di sicurezza della Federazione. Dietro l’evidente disegno del capo del Cremlino vòlto a restaurare quel che è restaurabile non solo dell’impero sovietico ma anche dell’era zarista non ci sono, insomma, solo le deprecabili ambizioni di un autocrate, che peraltro nella manifestazione di quelle ambizioni ha costruito una parte considerevole, ancorché forse (si spera) scemante, del proprio consenso nell’opinione russa, ma un aggregato di interessi nazionali di cui qualsiasi governante futuro del paese in qualunque contesto di relazioni internazionali sarebbe obbligato a tener conto. Il problema non è (solo) Putin con il suo autoritarismo che sconfina nella dittatura, ma è (anche) la Russia come la geografia e la sua storia la collocano nel mondo.

Chiave di lettura

Questa è la chiave con cui dovrebbe essere letto anche il conflitto con l’Ucraina. Il revanscismo nazionalistico (riunificare tutte le popolazioni russe dell’ex impero) ha indubbiamente un peso in quel conflitto ed è stata la molla principale dell’avventurosa “riconquista” della Crimea: un atto di prepotenza e di disprezzo della legalità internazionale che comunque è stato sancito con l’80 e passa per cento dei voti in un referendum, per quanti sacrosanti dubbi si possano avere sulla sua correttezza democratica. La stessa cosa si può dire per il gioco pericoloso cui Mosca si sta dedicando nel Donbass.

L’Ucraina è sempre stata una spina nel fianco della Russia e neppure nella soffocante piattezza del potere sovietico sono mai venute del tutto meno le insofferenze e le rivendicazioni di autonomia della provincia che un tempo era stata la più ricca e avanzata dell’impero. Una crisi latente dei rapporti reciproci che è diventata aperta, ovviamente, dopo il disfacimento dell’URSS, prima con la non ratifica da parte di Kiev dell’atto costitutivo della Comunità degli Stati Indipendenti che riconosceva la Federazione russa come l’erede legale (anche all’ONU con relativo diritto di veto) dell’Unione Sovietica e poi con l’uscita formale dalla stessa CSI nel 2018. Una crisi di lungo momento, insomma, che aveva avuto un picco con la “rivoluzione arancione” filo-europeista e sostanzialmente antirussa del 2004, ma che poi ebbe un drammatico momento di svolta all’inizio di aprile del 2008 quando all’ordine del giorno del vertice NATO di Bucarest comparve, su un’iniziativa dell’amministrazione Bush fortemente voluta, si disse allora, dal vicepresidente, il “falco” Dick Cheney, la discussione su un’ eventuale adesione all’alleanza della Georgia e, appunto, dell’Ucraina. L’iniziativa venne stoppata dagli europei e la discussione rinviata al dicembre successivo, ma la bomba politica era scoppiata e l’onda d’urto arrivò molto forte a Mosca. L’Ucraina e la Georgia nella NATO non potevano non rappresentare, agli occhi dei russi, il completamento dell’accerchiamento ostile realizzato dall’alleanza occidentale con il suo spostamento politico e militare sempre più a est, in particolare in Polonia e nelle repubbliche baltiche, realizzato contro le promesse e gli impegni che erano stati presi nel ’90 con Gorbaciov in cambio del sì sovietico all’unificazione tedesca dopo il crollo del Muro di Berlino.

Si tratta di un capitolo che non va riletto però solo con gli occhi di Mosca e del suo risentimento per gli impegni non mantenuti dagli occidentali. Le repubbliche baltiche e la Polonia avevano e hanno molte buone ragioni, non solo storiche, per sentirsi minacciate dal Grande Vicino, soprattutto se è governato da un aperto nostalgico della grandeur imperiale come Vladimir Putin. Ma ciò non toglie che una maggiore prudenza e discrezione della NATO, per esempio almeno la rinuncia ad installare certi aggressivi sistemi d’arma nelle immediate vicinanze del territorio russo o a compiere certe esercitazioni militari (come quella dei giorni scorsi nel Mar Nero al largo della Crimea) avrebbe certamente aiutato a non inasprire la tensione con Mosca. In fin dei conti, gli Stati Uniti, nel 1962, non esitarono ad aprire una crisi che avrebbe potuto sfociare in una guerra nucleare pur di ottenere da Mosca il ritiro dei missili da Cuba, considerata il “giardino di casa”. Forse non sarebbe inopportuno, talvolta, considerare che anche i russi hanno il loro “giardino di casa”, come si è fatto, peraltro, per molti decenni con la Finlandia.

Guerriglia ideologica

Il regime di Putin, a sua volta, commette un errore strategico rispondendo alle sanzioni comminate dopo l’annessione della Crimea con una specie di guerriglia ideologica non dichiarata ma evidente non solo e non tanto contro i governi europei, con i quali negozia tranquillamente quando si tratta di forniture di gas e petrolio, quanto contro le istituzioni di Bruxelles. Se nel novembre del 2013 Putin non avesse costretto praticamente l’allora presidente ucraino filorusso Victor Janukovyč a interrompere le trattative con la Commissione europea per l’accordo di associazione che prevedeva la creazione di un’area di libero scambio (DCFTA: Deep and Comprehensive Free Trade Area) non solo si sarebbe evitato il sanguinoso braccio di ferro della cosiddetta “Euromaidan”, il periodo di manifestazioni in cui un ruolo importante ebbero, accanto agli ucraini filo-europei, anche forze di estrema destra fascisteggianti o esplicitamente neonaziste, ma non si sarebbe creata nel paese la pericolosa spaccatura tra le regioni occidentali prevalentemente filoeuropee e quelle orientali largamente filorusse. La situazione, cioè, che offre a Mosca il pretesto di alimentare la ribellione delle popolazioni russe maggioritarie nel Donbas.

In conclusione non si può prevedere, ora come ora, che cosa succederà ai disperati nella foresta al confine tra Polonia e Bielorussia, se Lukashenko accetterà di dare a tutti loro almeno un tetto e il governo di Varsavia permetterà alla fine la creazione di un corridoio umanitario verso luoghi sicuri; se Putin, per dimostrare che davvero con questa brutta storia, come dice, non c’entra, farà pressione sul suo alleato perché cessi le provocazioni sulla pelle dei profughi;  se il governo sovranista polacco insisterà nella pretesa di costruire un muro sul confine e come reagiranno le istituzioni dell’Unione. Né è dato immaginare quali sviluppi avrà la mai dichiarata guerra nel Donbas, che è costata già più di diecimila morti, un milione e mezzo di sfollati, l’abbattimento di un aereo civile malese e – vogliamo ricordarlo qui – l’uccisione del giornalista italiano Andrea Rocchelli. Se gli accordi sullo statuto speciale dei distretti a maggioranza russa faticosamente negoziati a Minsk verranno applicati e serviranno davvero a far cessare il fuoco per più di qualche ora. Una cosa è certa: soluzioni positive arriveranno solo se tutte le parti mostreranno moderazione e capacità di considerare anche le ragioni degli altri. In fin dei conti il modello della mediazione tra le parti con l’intervento dell’ONU o la creazione di sedi di dialogo come quelli definiti dalla Conferenza di Helsinki o con la CSCE, la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. Il metodo della cooperazione multilaterale ha funzionato quando l’equilibrio del terrore rischiava di precipitare nella guerra nucleare, perché non lavorare perché funzioni ancora oggi?