La progettualità del Sud è una realtà frenata dalla fuga dei cervelli

«Caro Beppe, è un casino il PNRR e noi mettiamo a terra un ca**o». dice il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, al sindaco di Milano, Giuseppe Sala che gli  risponde: «È questo, adesso va bene tutto. Noi dobbiamo farci un po’ più furbi su questa cosa e fare un po’ più di sistema obiettivamente tra tutti. Io sono preoccupato del fatto che Sud, Sud, Sud, ho capito, ma l’innovazione… Però io non ho veramente niente da contestare. Voglio chiarezza, perché è evidente che noi abbiamo una progettualità…».

Questa sortita dei due amministratori lombardi rubata in un classico “fuori onda” è stata interpretata in ambienti meridionali, e non solo, come il tentativo di arraffare dal PNRR più soldi di quanti gliene siano stati assegnati, sottraendoli alle regioni meridionali. Le quali, fra l’altro, non hanno “una progettualità”. E così è: “a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Questo passo del Vangelo di Matteo (e di altri evangelisti) è stato preso proprio sul serio e nella sua letterale interpretazione da quei due amministratori ai quali, più laicamente, bisognerebbe spiegare perché, nel loro e più diffuso interesse, vale il mazziniano “L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà ”.

La “separazione politica”del Mezzogiorno

È una storia vecchia.  Oltre cento anni fa lo storico, uomo politico di Molfetta, socialista, Gaetano Salvemini in una lettera al giornalista e sociologo romagnolo Alessandro Schiavi il 16 marzo 1911, scriveva con amarezza: “Ogni giorno che passa diventa sempre più vivo in me il dubbio, se non sia il caso di solennizzare il cinquantennio [dell’Unità] lanciando nel Mezzogiorno la formula della separazione politica.”

Aggiungendo, in altra occasione, che, per risolvere la “Questione meridionale”, sarebbe stato opportuno segare il Mezzogiorno dal resto della Penisola e farlo navigare alla ventura nel Mediterraneo.

Questa citazione  mi ha riportato alla mente José Saramago e la sua Zattera di pietra il quale racconta per la penisola iberica un accadimento simile a quello che Salvemini, con amara ironia, ipotizzava per il Mezzogiorno. Accadde, cioè, che un giorno Spagna e Portogallo si staccarono dal resto dell’Europa e cominciarono a “navigare” nell’Atlantico diventando un’isola da penisola che erano e da penisola appartenente al continente Europa.  Navigando in quel “gurgite vasto” che è l’oceano rischiarono di speronare le Azzorre, ma la navigazione si fermò in tempo.  Non altrettanto spazio avrebbe il Mezzogiorno d’Italia nel piccolo Mediterraneo: potrebbe speronare la Sardegna, toccare il Nord Africa o andare a intasare Gibilterra e il suo Stretto.

Chi potrebbe guadagnare da un simile evento? Certamente qualche nostalgico rivalutatore dei tempi andati delle “due Sicilie” il cui regno potrebbe essere ricostituito. Con gran vantaggio per una burocrazia che fornirebbe grande quantità di posti di lavoro a regnanti, ministri, ambasciatori e via elencando.

Mai tanti soldi da spendere

Oggi le cose sono cambiate. Cento anni non sono passati del tutto inutilmente. Anche se ci aspettava di più e da più tempo, come dal dopoguerra hanno inutilmente auspicato i meridionalisti. Esiste tuttora una questione meridionale che alimenta dibattiti generalmente conclusi con molte parole e pochi fatti. Ma qualche cosa sta o può cambiare destando preoccupazione nei sostenitori di una settentrionale questione.

Accade, infatti, che non si sono mai visti tanti soldi da spendere. Molti sono destinabili al Mezzogiorno e parecchi alla Campania che nel “rimbalzo” dopo la caduta fa registrare, come dicono i numeri, una dinamica di crescita migliore che nel resto del Mezzogiorno e quasi alla pari con il Centro-Nord.

Questo ci dicono i numeri, ma i fatti ci dicono che difficilmente saranno rispettati.

Perché questo rischio? Perché questa nuova esperienza si scontra con una scarsa capacità di spesa e di realizzare programmi di sviluppo: la progettualità di cui parlava il sindaco di Milano. Quindi vi sono tanti soldi da spendere, ma con il rischio che Regioni e Comuni meridionali non ce la faranno.

L’Italia dei due terzi che non va

Diciamo subito che potrebbero non farcela non per atavica incapacità insita nel loro Dna, ma per le motivazioni che ha ben spiegato Isaia Sales  (“Non funziona l’Italia dei due terzi”, “La repubblica” del 23 dicembre 2021): “Non dimentichiamo che in un ventennio si sono paurosamente depauperati gli uffici pubblici e al tempo stesso sono emigrati un milione di meridionali, di cui il 30% laureati. Mettere in condizione il Sud di far tornare una parte di quelli che sono andati via, sarebbe già un primo grande risultato. Lo si può fare solo se la classe dirigente del Paese tornerà a pensare in grande, come nel secondo Dopoguerra, ponendosi la domanda: cosa potrebbe  diventare l’Italia se al posto di una sola locomotiva ne avesse due a sospingere il suo sviluppo?”.

È, aggiornato, l’avvertimento mazziniano. Ma bisogna far presto. Perché, come avverte l’economista Adriano Giannola presidente della Svimez (l’Associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno fondata da Pasquale Saraceno nel 1946), quella locomotiva comincia anche a perdere vagoni. Vagoni che si chiamano Toscana e Piemonte. Ed  è l’ennesima dimostrazione che l’Italia senza il Mezzogiorno non ce la può fare. Lo sa bene il Piemonte le cui industrie, soprattutto quella automobilistica, senza la manodopera immigrata dal Mezzogiorno sarebbero rimaste praticamente ferme.

Ma non è con la riprese della immigrazione al Nord che quella locomotiva può andare velocemente avanti. Al contrario quella meridionale è una locomotiva che si muoverà progressivamente veloce cominciando a trattenere i manovratori che hanno le valigie già pronte. E poi richiamando quanti se ne sono andati.

Quali incentivi?

Come e con quali “incentivi” sarà possibile e in tempi brevi fermare le partenze e incrementare i rientri?

Certamente accrescendo la capacità di spesa e quella di proporre programmi di sviluppo in grado di essere accolti e finanziati contrariamente a quanto ritengono Attilio Fontana e Giuseppe Sala. Ma il quesito è anche un altro: proporre programmi per fare e produrre che cosa? Realizzare posti di lavoro capaci di trattenere potenziali migranti e attrarre rientri è certamente un obiettivo. Ma se per realizzarlo non si bada alla durata nel tempo dell’incentivo, alla sua autentica “sostenibilità”, si rischia di fare la fine della lavatrici della Whirlpool.

Il che significa che se all’urlo “lavoro, lavoro” non si dice quale tipo di sollecitazioni bisogna dare all’industria per creare posti di lavoro, si finisce col fare interventi che hanno solo il sapore della beneficenza. E, in quanto tali, non sono sostenibili perchè non duraturi.

Un lavoro lungo nel tempo

Il che significa, ancora, che sarà possibile approfittare dei i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza utilizzandoli come incentivo a restare e a tornare solo dimostrando che quanto ci si propone di fare con quei soldi garantisce un lavoro lungo nel tempo. Potrà darne l’industria che produca beni di consumo di lunga durata; l’agricoltura il cui ancora timido ritorno ai campi può essere fortemente incentivato; il turismo e il terziario in genere. E queste sono risposte da tutto e niente se non suffragate da nomi e cognomi delle cose che si propone di fare.

Una su tutte, lo ripeto sino alla noia, è l’attenzione da riservare al recupero e sostegno di vivibilità dell’ambiente e sicurezza del territorio. Perché nella fragile Italia il Mezzogiorno vi è maggiormente esposto e sguarnito. E investire per abbatterne la vulnerabilità significherebbe creare un ambiente maggiormente “attraente”. Dal quale non avrebbe senso andarsene e sarebbe bello tornare su un territorio sicuro perché non esposto ai rischi di frane e alluvioni; perché antisismico in tutto il patrimonio edilizio (a cominciare dalle scuole); perché le città non sono più fabbriche di inquinamento e gas serra (Resilienza).

Questo, Realisticamente (un’altra R),  è un obbligo. Certamente con elevati costi, ma con benefici incommensurabilmente superiori (Ripresa).