“La biblioteca del mondo”, Umberto Eco e i suoi libri visti da Davide Ferrario

Scaffali interminabili, lunghi corridoi tappezzati di parole e carta a far la bella somma di quarantamila libri moderni, poi uno studio affacciato sul Castello Sforzesco di Milano e un’altra stanza, a ospitare millecinquecento libri antichi e rari. Il documentario “Umberto EcoLa biblioteca del mondo”, girato con sapienza e garbo da Davide Ferrario (“Tutti giù per terra”, “Dopo mezzanotte”), s’immerge nel “santo dei santi” di uno spirito laico, curioso, dispensatore di gioia sicura e intellettuale piacere per milioni di lettori. Libri, ovvero l’Eden per il semiologo e scrittore, che si affida al “Paradiso”: “Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna”.

biblioteca del mondoEco sottolinea birichinamente ed estrae dal contesto dantesco quel “volume”. E difende la sua bibliofilia, affare ben diverso dalla bibliomania, quest’ultima ha accenti egoistici, segrega i libri, la bibliofilia è amore di condivisione. Libri goduti e disposti in vita secondo sentimento, predilezioni, filoni, sezioni “del cuore” (il fumetto, la letteratura d’appendice, gli esotismi salgariani, i gialli francesi profumati di mistero, tra Fantômas e dintorni) sottolineati, magari qualcuno pure segnato da un’orecchia promemoria o da una macchia di marmellata; ora, dopo la scomparsa nel 2016 a 84 anni del Professore più amabile e coinvolgente, donati: quelli antichi, senza traccia di marmellata, alla Biblioteca Braidense di Milano, l’esercito dei novecenteschi e oltre all’Università di Bologna, dove Eco ha tenuto cattedra di semiotica ed è stato direttore del Dams.

Libri, argine alla barbarie

La biblioteca del mondo”, perché i libri del mondo rappresentano la memoria, sono un argine alle barbarie, quelle appena goffe o le più pericolose. Tracimano dai social media, dove la quantità iperbolica di messaggi “assorda”, impedendo i distinguo e di mediato c’è poco. Umberto Eco non amava il web (“mi può dare anche diecimila riferimenti bibliografici, di fatto inservibili, meglio tre libri scelti consapevolmente che mi aiutano sul serio”) e, paradosso per un difensore della modernità contro ogni oscurantismo, usava lo smartphone come taccuino, difendendo il diritto alla quiete, a non telefonare e ricevere sms o squilli indesiderati. Lo confessa in un divertente incontro pubblico, uno dei molti cuciti da Ferrario nel doc, scintillante humour e passione intellettuale profusi in lezioni magistrali, presentazioni di libri, visite in università straniere.

Il viaggio s’impreziosisce di agganci al pensiero di questo studioso anticonvenzionale e sommamente creativo, visitato attraverso le incursioni nelle sue opere – da “Apocalittici e integrati” a “Il cimitero di Praga” – di sei attori, uno più bravo dell’altro: Giuseppe Cederna, Niccolò Ferrero, Paolo Giangrasso, Walter Leonardi, Zoe Tavarelli, Mariella Valentini. Accompagnano il percorso nel mondo “biblico” di Eco la moglie Renate Ramge, i figli Carlotta e Stefano, i nipoti, l’amico Riccardo Fedriga, rendendo Umberto presente, con aneddoti e memorie di squisita, mai dolente tenerezza.

Le parole che ci rendono umani

Eco chiude nell’80 “Il nome della rosa”, thriller medievale dal potente messaggio antitotalitario divenuto successo mondiale, con il verso di un monaco benedettino francese del XII secolo, Bernardo di Morlaix: ”Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”, “La primigenia rosa esiste solo come nome, possediamo soltanto nudi nomi”. Nominando pensiamo, serbiamo memoria, tramandiamo parole, non c’è altro che meglio ci renda umani. E pochi anni dopo, nel finale delle Postille al romanzo, scriverà di libri che si parlano tra loro, come in una universale, interminabile “Opera aperta”, per citare un suo lavoro su lettura e interpretazione.

“I libri – scrive il Petrarca in una celebre lettera a Giovanni Anchiseo in difesa della sua irrefrenabile bibliofilia accumulativa – ci danno un diletto che va in profondità, discorrono con noi, ci consigliano e si legano a noi con una sorta di familiarità attiva e penetrante; e il singolo libro non insinua soltanto se stesso nel nostro animo, ma fa penetrare in noi anche i nomi di altri, e così l’uno fa venire il desiderio dell’altro”. Una rete! Un mondo magico parallelo, perché “Madame Bovary” è fiction ma è anche unica e vera.

Eco maneggiava con diletto i testi più implausibili e strambi, come certi tomi del gesuita seicentesco Athanasius Kircher, poligrafo impenitente che aveva scritto, tra infinito altro, di Cina senza esserci mai stato. Oppure folli trattati, partiti da premesse tolemaiche (per dire formidabilmente sbagliate) e concresciuti su se stessi fino a comporre un mondo falso ma con una sua affascinante coerenza interna.

“L’eterno fascismo” nemico della modernità

Navigatore di gran bussola, il Professore si divertiva col bizzarro, lo studiava, arrivando ad apprezzare come significativo monstrum letterario quelle opere che catalogava con la sigla APS, autori a proprie spese, ottimo esempio i libri auto-pubblicati da un bel soggetto che li presentava come “Epistolari” con primi ministri e pontefici, mentre nel libro c’erano solo le sue lettere, non avendo mai ricevuto risposta alcuna. Così la leggenda del medievale Prete Giovanni, mitico sovrano cristiano orientale, può fornirgli spunto per il romanzo “Baudolino”, ma vedeva bene il pericolo sociale di invenzioni complottiste, capostipite il falsissimo Protocollo dei Savi di Sion, strumentalizzato dal nazismo.

Il suo “Pendolo di Foucault” a cabala ed esoterismo aggiunge proprio l’ossessione del complotto, l’illazione su congiure inesistenti per metterne in atto di autentiche (Hitler docet). Nel documentario Eco insiste sul chiodo dell’“eterno fascismo” – così s’intitola un suo famoso saggio – intriso di machismo, nemico della modernità, complottista, appunto (vedi la tentacolare sostituzione etnica).

Chissà cosa avrebbe scritto sulle fabbriche di fake news putiniane, il sovranismo populista e i deliri no vax tra Big Pharma e oscure manovre sanitarie di controllo. Ventilare segreti, mai portare prove, perché, ha scritto, “un segreto vuoto si erge minaccioso e non può essere né svelato né contestato”. Per quanto riguarda i social, già aveva espresso ben più che diffidenza: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel”. Ribadita nel documentario, a timbrare l’epoca: “Quando c’era Dio si credeva a una sola persona, senza Dio si crede a tutti”.

Le altre biblioteche del mondo

Gli ottanta succosi minuti del documentario – produce la Rossofuoco dello stesso Davide Ferrario con Rai Cinema – regalano anche emozionanti sorvoli su alcune biblioteche di rango, dalla storica Accademia Albertina di Torino a quella, bianca, enorme, veleggiante di Tianjin in Cina, una buona approssimazione alla Torre di Babele e alle suggestioni borgesiane. Per chiudersi con Eco che richiama il Primo libro dei Re e il profeta Elia assordato dal vento: “Non si può trovare Dio nel rumore, Dio si palesa solo nel silenzio. Dio non è mai nei mass media, sulle prime pagine dei giornali, Dio non è mai in tv, Dio è dove non c’è agitazione. E questa massima vale anche per chi non crede in Dio, ma pensa che da qualche parte esista una verità da scoprire o un valore da creare. Non si possono trovare verità e creatività in un terremoto, ma solo in una ricerca silenziosa».

Ricerca confortata da pagine e parole. Eco, in una nota che precede “Il nome della Rosa”, citava così Tomaso da Kempis: “In omnibus requiem quaesivi, et nusquam inveni nisi in angulo cum libro”, “Cercai ovunque la quiete e in nessun posto la trovai se non in un angolo con un libro”.