La barriera dei soldi.
E una felicità troppo provvisoria
Jérôme e Sylvie si erano adagiati nel provvisorio. Lavoravano come altri studiano; sceglievano gli orari. Bighellonavano come solo gli studenti sanno bighellonare.
Ma i pericoli incombevano da ogni parte. Avrebbero voluto che la loro storia fosse la storia della felicità; troppo spesso era solo quella di una felicità minacciata. Erano ancora giovani, ma il tempo passava in fretta. Uno studente anziano è qualcosa di sinistro; un fallito, un mediocre è più sinistro ancora. Avevano paura.
Non basta il tempo libero
Avevano tempo libero, ma anche il tempo lavorava contro di loro. Bisognava pagare il gas, l’energia elettrica, il telefono. Bisognava mangiare, tutti i giorni. Bisognava vestirsi, bisognava far rimbiancare le pareti, cambiare le lenzuola, dare a lavare la biancheria, far ritirare le camicie, acquistare le scarpe, prendere il treno, comperare i mobili.
Talvolta le questioni di soldi li divoravano completamente. Ci pensavano di continuo. Persino la loro vita affettiva, in larga misura, ne dipendeva strettamente. Tutto faceva pensare che, quando erano un po’ ricchi, quando avevano un po’ di vantaggio, la loro felicità comune fosse indistruttibile; nessuna costrizione sembrava limitare il loro amore. I gusti, la fantasia, l’invenzione, gli appetiti si confondevano in un’identica libertà. Ma erano momenti privilegiati; più spesso dovevano lottare: ai primi segni di deficit, non era raro che se la prendessero l’uno con l’altra. Si scontravano per un nonnulla, per cento franchi sprecati, per un paio di calze, per i piatti non lavati. Allora per lunghe ore, per intere giornate, non si parlavano più. Mangiavano l’uno di fronte all’altra, velocemente, ciascuno per conto suo, senza guardarsi. Si sedevano ciascuno in un angolo del divano, voltandosi quasi le spalle. L’uno o l’altra facevano interminabili solitari.
Il muro dei soldi
Fra loro si ergeva il denaro. Era un muro, una specie di respingente contro il quale urtavano a ogni istante. Era qualcosa di peggio della miseria: il disagio, la ristrettezza, la piccineria. Vivevano il mondo chiuso della loro vita chiusa, senza futuro, senza prospettive che non fossero impossibili miracoli, fantasticherie imbecilli che non stavano in piedi. Soffocavano. Si sentivano colare a picco.
Bastava che qualcosa un giorno andasse storto, che un’agenzia chiudesse le porte, o li considerassero troppo vecchi o troppo irregolari nel lavoro, o che uno dei due si ammalasse, perché tutto crollasse. Non avevano niente davanti, e niente alle spalle.
(Georges Perec, “Le cose”, 1965)
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