Italia, cresce la rabbia dei giovani arabi davanti al conflitto in Medioriente

Apriamo occhi e sturiamo orecchie. In Italia tra i giovani immigrati di seconda generazione, arabi o nati in famiglie di religione islamica, qualcosa si sta muovendo, di spontaneo e mosso da rabbia crescente. L’ennesimo, atroce confronto armato israelo-palestinese che lacera le coscienze più avvertite e raziocinanti, può essere una miccia per microconflitti in zone del nostro Paese già attraversate dal malessere di una integrazione debole o assente. Una separatezza-emarginazione fisica pronta a trasformarsi in baratro a causa di una distanza culturale e sociale.

I giovani italiani di altra origine

Galli della Loggia ha puntato un dito severo contro i ragazzi immigrati stranieri (in realtà non sono di fatto altro che “Italiani di altra origine” ma pare che il Covid, oltre agli aperitivi di massa, abbia congelato qualsiasi discussione su jus soli temperato e jus culturae) che a Milano hanno bruciato la bandiera di Israele e gridato pessimi slogan, come “gli ebrei sono i nostri cani”. Si tratta, scrive, “di schietto antisemitismo”.

Su un aspetto si dovrebbe essere tutti d’accordo: le seconde generazioni di immigrati da aree islamiche – Francia docet – prive o carenti di legami con i nuovi contesti in cui si trovano a vivere, tendono talvolta a rifugiarsi in una comfort zone identitaria all’insegna di una concezione molto tradizionalista dell’Islam (talvolta caricaturale o violenta) che i loro genitori non hanno più.

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Foto di hosny salah da Pixabay

Un tema sottolineato da Olivier Roy in “Global Muslims”, dove sollevava, a proposito di jihadismo, una questione capitale: siamo di fronte a una radicalizzazione dell’Islam o a una islamizzazione del radicalismo? l’adesione a filoni integralisti deriva da una insoddisfazione e separatezza crescente tra giovane popolazione musulmana, ha quindi origini eminentemente sociali, oppure è il frutto proibito di una predicazione talvolta incompatibile con le nostre “tavole della legge” culturali e politiche?

È bene tener presente che in Francia solo la popolazione musulmana si avvicina ai sei milioni di persone, nel dipartimento Senna e Marna nel 2019 al 54% dei nuovi nati è stato dato un nome arabo, da qui dibattiti sulla progressiva islamizzazione del Paese, politiche di controllo severe etc; in Italia i musulmani non arrivano ai due milioni e rappresentano una minoranza (benché robusta, sul 33%) dei migranti regolari.

Ghetti e neoschiavismo  fuori dalla civiltà

Qui non abbiamo alle viste né piccole né grandi intifade, certo è che i ghetti urbani, il neo-schiavismo nelle campagne e non solo e l’esercito dei sans papier nostrani, valutato in più di 600.000 persone, in certi casi assorbito da marginalità e delinquenza, non aiutano un’Italia che, a causa della forte denatalità, avrebbe bisogno di una immigrazione regolata (pure in sede europea), di piani precisi e dedicati nel Recovery Fund proprio per cominciare a delineare un futuro migliore per tutti, a valutare i benefici di un’immigrazione sotto il segno della civiltà. Fin lì Salvini e Meloni proprio non arrivano a capire.

Foto di hosny salah da Pixabay

E non aiutano frasi come questa, sempre di Galli della Loggia sull’onda dello sdegno per la protesta anti-istraeliana milanese: “Se poi si obiettasse che le identiche cose gridate dai giovani manifestanti arabi potrebbe benissimo gridarle anche qualche giovane italiano militante di Forza Nuova o Casa Pound, sarebbe facile rispondere che mentre ai cittadini italiani è la Costituzione che vieta di togliere la cittadinanza, la stessa non obbliga certo di darla a coloro che ne sono privi”. Alè. Ci vuole un giro di vite? Ulteriore?

Attualmente chi nasce da genitori stranieri, anche se in territorio italiano, può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto diciotto anni ed ha risieduto da noi “legalmente e ininterrottamente”. E che si vuol fare, creare un regime speciale di libertà di parola vigilata per giovani arabi senza cittadinanza? Se in una manifestazione si va “fuori dal seminato” in parole o opere, deve valere la legge uguale per tutti.

La collera per quel che Israele fa e ha fatto

Siamo sicuri che nella rabbia contro Israele c’entri l’antisemitismo inteso come odio verso gli ebrei in sé, in quanto ebrei? Oppure è anche collera per ciò che gli ebrei, meglio, lo Stato di Israele, fa e ha fatto?

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Foto di hosny salah da Pixabay

Dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948-49 si è espanso al 78% del territorio della Palestina storica, ben oltre il 56% assegnato dall’Onu. Dopo la guerra dei Sei Giorni nel ’67 ha occupato militarmente il Sinai (Egitto), le alture del Golan (Siria), la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, Gerusalemme Est, continuando a ignorare qualsiasi risoluzione Onu di condanna per occupazioni illegittime e insediamenti altrettanto illegittimi in territori palestinesi.

Israele infatti ha sì lasciato, in seguito, Gaza e la Cisgiordania, praticando però, in quest’ultima, un accaparramento di terre, un land grabbing, sotto l’ombrello di una neo-colonizzazione spinta dai partitini religioso-nazionalisti, che spesso hanno puntellato i governi di destra, Netanyahu in prima fila.

Israele pratica l’apartheid

Gli attacchi dei coloni a terreni e proprietà palestinesi in Cisgiordania non si contano più ed è sempre rimasta in vigore la cosiddetta Legge degli assenti, in base alla quale si poteva sottrarre la terra ai palestinesi cittadini israeliani che non potevano tornare a casa loro perché fuggiti all’estero o spostati a forza in altre zone dello Stato d’Israele. Una brutale confisca: ti sposto coattivamente dal posto in cui vivi e poi ti prendo la terra perché non ci abiti e lavori più. Peggio del famoso Comma 22.

Israele pratica l’apartheid, tranne Galli della Loggia lo sanno tutti e lo deplorano senza essere antisemiti. Peraltro, Hamas a Gaza non rappresenta una soluzione al problema palestinese, anzi, è un problema in sé – ben covato dall’Iran – visto come ha soffiato sul fuoco cogliendo al balzo, tra l’altro, l’occasione degli sgomberi forzati di famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est. Il resto è dolore, paura, morte, da una parte e dall’altra.