Israele, stop alla riforma della giustizia. Ma per Netanyahu potrebbe essere troppo tardi
Benjamin Netanyahu paga con la rivolta popolare, la più grande della storia di Israele, il prezzo del suo disperato azzardo nel voler tornare al governo imbarcando la destra più retriva e anacronistica. Il Paese è nel caos e il suo premier rischia di passare alla storia come il leader che ha profondamente, e forse in modo irreversibile, minato la sua unità intestardendosi nel portare avanti l’improponibile riforma del sistema giudiziario che punta a limitare pesantemente le competenze della Corte suprema, di fatto sottomettendola all’esecutivo.

Le ultime notizie parlano di una sospensione del provvedimento sulla spinta, oltre che dell’imponente manifestazione popolare di domenica notte, dell’accorato appello del presidente Isaac Herzog e delle preoccupate prese di posizione dell’amministrazione Usa. Anche il leader del partito di estrema destra Otzma Yehudt, Itmar Ben Gvir, si sarebbe piegato ottenendo peraltro in cambio la guida della Guardia Nazionale. Difficile prevedere gli sviluppi di una vicenda che è andata sempre più ingarbugliandosi.
Secondo il Jerusalem Post l’esame della riforma non dovrebbe riprendere prima della prossima estate. Sarebbe un risultato di rilievo per chi si è opposto all’arroganza dell’estrema destra. Nel frattempo, però, la situazione resta confusa mentre la tensione rimane alta nel Paese paralizzato da scioperi, cortei e blocchi stradali. Difficilmente si potrà ricomporre, almeno nel breve periodo, la frattura provocata dalla fuga in avanti antidemocratica del premier e dei suoi alleati.
Due mesi di dure proteste di piazza
Israele è stremato da oltre due mesi di proteste nelle principali città. Una ribellione in difesa dello stato di diritto che è andata sempre più crescendo sino a coinvolgere riservisti dell’esercito, piloti dell’aeronautica militare e componenti delle unità di élite, man mano che il governo a colpi di maggioranza procedeva in parlamento nel suo progetto di ribaltare il sistema di pesi e contrappesi tra esecutivo, legislativo e giudiziario alla base di ogni sistema democratico occidentale.
Il colpo di mano del governo di Netanyahu è ancor più grave e sconcertante in quanto la democrazia viene da sempre sbandierata come la “peculiarità” dello Stato israeliano che si è incastonato a forza nel mondo arabo per poi allargarsi sempre più manu militari grazie alla protezione Usa. Una peculiarità che è stata spesso invocata, assieme ad altre ragioni meno decisive, come giustificazione del suo diritto a esistere e a difendersi da eventuali pericoli esterni, anche a costo di chiudere un occhio sulla illegittima occupazione dei Territori dove annaspano i palestinesi privati in tutto o in parte dei loro diritti.
Contro la deriva autoritaria di Netanyahu
Ora, se venisse a mancare una delle principali caratteristiche che lo accomuna ai Paesi occidentali, potrebbe venir meno anche una certa “benevolenza” di gran parte dell’opinione pubblica europea e persino americana nei confronti di un Paese che, di fatto, ancora pratica il colonialismo. E questo, nel tempo, potrebbe rivelarsi un problema non di poco conto per uno Paese perennemente in stato di allerta contro i vicini, soprattutto in un momento di rimescolamento di carte nel Medio Oriente che vede affiancarsi alla sempre presente Russia l’inatteso attivismo della diplomazia cinese che ha prodotto niente di meno che il disgelo dei rapporti tra Arabia Saudita e Iran, il più temuto nemico di Israele.
Contro la deriva autoritaria che rischia di condurre Israele verso un pericoloso isolamento internazionale si è ribellata negli ultimi mesi la parte sana del Paese, quella che nonostante tutto ha sempre cercato una soluzione della peraltro irrisolvibile questione palestinese.
La profonda spaccatura nel paese
Questa insurrezione popolare ha palesato una spaccatura nella società ben più profonda di quella che sembrava emergere dal risultato delle elezioni dello scorso novembre che hanno decretato la schiacciante vittoria dell’estrema destra.
Le divisioni interne esasperate dal governo di Netanyahu rappresentano oggi la minaccia più insidiosa per il futuro del Paese dove in molti mettono sempre più in dubbio la tenuta del premier e del suo esecutivo. Nel suo discorso alla Nazione con il quale ha annunciato di voler rinviare la seconda e la terza tornata delle votazioni in Parlamento sulla riforma del sistema giudiziario, il premier israeliano ha dichiarato di aver assunto questa decisione per evitare pericolose spaccature che sarebbero potute sfociare in una guerra civile. Una “presa di coscienza” della gravità della situazione che potrebbe però dimostrarsi tardiva.
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