Isolina Mantelli, l’utopia
al servizio della medicina
“Tutti hanno bisogno di un terreno che si chiama utopia”. Isolina Mantelli questo terreno lo percorre da molti anni e, quando pronuncia la frase, lo fa quasi con timidezza, col timore di esporsi troppo, perché, quell’utopia, lei ha contribuito a realizzarla davvero.
Un terreno può essere spianato o pieno di insidie: provare a eliminare steccati, pietre di inciampo, buche è il compito che si assunse giovanissima, subito dopo la laurea in Medicina, a Firenze. Studentessa fuori sede – è infatti di Catanzaro – in quella città, sul finire degli anni Sessanta, partecipò alla rivoluzione del ’68 con lo stesso entusiasmo di molti giovani di allora. Avrebbe potuto rimanere all’università e avviare una brillante carriera di ricercatrice, ma Isolina proprio non si vedeva in un laboratorio. “Poi, si aprono semplicemente strade. Il mondo è cambiato, quel movimento è stato riassorbito, pur avendo contribuito a conquistare diritti civili importanti, e quella passione per il sociale ha preso in me una forma nuova, concreta”, racconta.
L’impegno per i malati terminali
Si sposa, ha una figlia, e a un certo punto la vita le riserva un grande dolore, la perdita del marito poco più che trentenne. La malattia questa volta l’ha coinvolta intimamente, non più un rapporto medico/paziente; Isolina conosce sintomi e prognosi, partecipa a una sofferenza alla quale non riesce a porre rimedio. Da allora, il suo compito diventerà assistere e accompagnare i malati terminali.
I suoi pazienti saranno malati oncologici e di Aids: “volontà di prossimità”, la chiama. In anni in cui l’Aids si riempiva di luoghi comuni e pregiudizi, Isolina non ha timore a parlare da vicino a chi l’ha contratto, non usa guanti quando stringe loro la mano. Molti sono suoi amici, passati a setaccio dall’eroina. Li vede spegnersi e, accompagnarli verso la morte, per lei è relativamente semplice, ogni volta rivive la strada fatta con il marito. Nello stesso tempo, però, sa di cosa abbiano bisogno: di una terapia del dolore dell’anima, oltre che del corpo.
“Ricordo in particolare un mio amico, il quale, tra i dolori atroci che gli squassavano il fisico e la mente – ci confida – mi chiese di farlo morire. Io gli risposi che non sarei stata capace di farlo morire, ma lo avrei accompagnato fino al suo ultimo respiro, aiutandolo a morire. Gli venne interrotta la dialisi, durò cinque giorni. Da allora, non sono stata più capace di avvicinarmi a quella macchina”. Alla domanda sull’eutanasia, risponde che di sicuro occorra una legge e che si tratti di scelte personali: “Non giudico, semplicemente starei accanto sia a chi decide di ricorrervi sia a chi non lo fa”.
E ci racconta anche la sua amicizia con Natuzza, la mistica di Paravati. È stata il suo medico per trentun anni, testimone del venerdì santo, “la persona più importante della mia vita – afferma – le sono stata accanto per quarantasette anni, anche l’ultima notte”.
La cura migliore
Chi sa attraversare il dolore degli altri con tale rispetto, non può essere che una bella persona. Come Isolina, ci sono tanti sconosciuti ovunque, raccontare la sua storia è come raccontare quella degli altri, dei tanti che per noi non hanno ancora un nome, di quelli che lo fanno in silenzio.
Molti parenti hanno chiesto al nostro medico di assistere i propri cari in fin di vita. Un processo di umanizzazione importante, dal basso, di quelli che fanno bene a tutti senza saperlo, come se il bene irradiato e realizzato possa poi spargersi ovunque, anche là dove latita. Un contagio positivo.
Isolina non è sola, riceve sostegno e la sua caparbietà inizia a prender corpo. Frequenta il Centro Calabrese di solidarietà, come la madre. Ma ci sono tante richieste di aiuto, la stanza messa a disposizione dal Comune non è più sufficiente, decide di donare una sua casa in campagna, più grande. Da cosa nasce cosa, lei è instancabile. Nascono, quindi, un Centro di pronta accoglienza, una comunità terapeutica, un centro di reinserimento sociale, un centro residenziale e gratuito contro il gioco d’azzardo patologico, un servizio di prevenzione, un centro per la famiglia, un centro antiviolenza “Mondo rosa”, un ufficio di progettazione e formazione al lavoro. In ultimo, un centro per uomini maltrattanti e uno sportello antidiscriminazione Lgbt. Un percorso, come si intuisce, a tutto tondo, che include prevenzione, assistenza, reinserimento. Isolina Mantelli oggi ne è il presidente. Continua a sognare, e lo fa in una terra difficile, spesso ostile.
“Ho visto arrivare tossicodipendenti che sembravano privi di speranza. Dopo il percorso da noi, li ho visti spesso ritornare con la compagna o il compagno, e i figli, Erano venuti a farmeli conoscere. – dice Isolina – Ho visto arrivare donne sconvolte, spesso nude coi piccoli in braccio, scappate alle grinfie di un uomo violento. Ho visto il male in tutte le sue forme, ma credo che in giro ci sia tanto bene. Chi vede solo il male, si fa servitore dell’indifferenza”. “Servitori dell’indifferenza”: la storia di Isolina ci insegna che si rischia di servire l’indifferenza anche quando non si fa emergere il bene presente in ognuno, che, in fondo, ogni medico lavora in trincea (sia essa una clinica o un ospedale da campo), che la cura migliore da somministrare, a volte, è semplicemente una carezza senza guanti monouso, la presenza discreta ma autentica, umana, non semplicemente professionale.
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