Invecchiare, gioco on line che è un affare
Un gioco di travestimento di massa? Cambiarsi i connotati è il tormentone social di quest’estate. Pur di far soldi, e piazzare la pubblicità in ogni dove, i colossi dei social e i gestori delle applicazioni ne inventano una più del diavolo. Sono già più di ottanta milioni le persone che hanno utilizzato l’applicazione per l’invecchiamento del volto FaceApp, creata due anni fa ma tornata di gran moda in questi giorni.
In origine l’applicazione era stata pensata per postare la propria immagine convertita nell’altro sesso. Il gioco di massa è invece diventato quello di invecchiare o ringiovanire, di mostrarsi con le rughe che invadono il volto o con le guance tirate di un diciottenne. Per coinvolgere milioni di persone, l’operazione è resa facile e immediata: basta scaricare l’applicazione e caricare un proprio selfie. A trasformare il volto delle persone ci pensa direttamente lei, l’applicazione. Poi basta che personaggi noti, per meriti o demeriti, si prestino al gioco che subito la molla scatta e la pratica dilaga.
Dove vanno a finire quelle foto?
Su questo, alcune associazioni di consumatori (Altroconsumo e Codacons) si stanno interrogando, vista anche la facilità con la quale si può dedurre la geo-localizzazione dell’utente, A questa vicenda dovrebbero porre attenzione anche le istituzioni preposte alla tutela della privacy.
Ma appunto: dove vanno a finire le foto? Forse negli Usa (sede di Face App) oppure in Russia, a San Pietroburgo, dove ha sede la Wireless Lab 000, la società che l’ha prodotta. O ad arricchire gli archivi segreti (reti neurali) di qualche istituto che sta studiando come addestrare l’intelligenza artificiale al riconoscimento facciale.
Oppure a ingrossare i pacchetti di nomi, indirizzi e volti venduti alle multinazionali del commercio. O a partiti o leader che, con l’aggiunta di altri maliziosi algoritmi, potrebbero utilizzarle in campagna di propaganda di massa o nelle scadenze elettorali.
Ora anche i colossi temono i like
Dopo cyberbullismo, hate speech e fake news, un’altra macchia sta sporcando il bel volto d’internet: il cattivo uso delle immagini, con i relativi problemi derivanti dall’abuso sia collettivo che privato dei selfie. Le stesse piattaforme multinazionali cercano di introdurre limitazioni a questo strapotere delle immagini. Lo sta facendo, ad esempio, Instagram, il social che ha il primato in questo tipo di social.
Un esperimento che era partito dal Canada è stato ora esteso anche al nostro paese. Nessuno potrà vedere quanti like hanno ottenuto le foto dell’amica, dell’amico o del competitor. Cioè: spariranno i like sulle foto, o meglio, saranno visibili, solo a chi li ha pubblicati, compiendo una piccola operazione per ottenere “il visto si veda”.
L’idea che è alla base di questo esperimento è di limitare il voyerismo di massa, puntando invece sulla voglia di mostrarsi e di narrarsi in piena libertà, senza cioè l’ossessione del giudizio degli altri. Spiega Tara Hopkins, a capo della piattaforma per il nostro continente: ” Vogliamo che sia un luogo dove tutti possano sentirsi liberi di esprimere se stessi. Ciò significa aiutare le persone a porre l’attenzione su foto e video condivisi e non su quanti like ricevono».
L’esperimento sembra, in realtà, avere una portata che va oltre i profili di Instagram: i creatori di Facebook, Zuckerberg in testa, si stanno lentamente arrendendo al fatto che i social, quella tipologia di social, porta con troppa facilità alla creazione di cascate di fake, spinge quasi inesorabilmente verso l’odio verbale, perché troppo competitivo e quindi suscitatore d’invidia e di confronto che si spingono oltre i canoni della normale disputa.
La competizione che acceca. L’idea è di riprendersi in mano un giocattolo che ha generato miliardi su miliardi ma che ha perso, proprio per questo, la purezza delle origini. Ora tentano di spezzare questo circolo dannoso spingendo le persone a essere se stesse anche quanto usano i social. Senza i like, insomma, saremmo tutti più liberi e autentici.
La grande industria del selfie e i suoi affari
Mai credere che i neocapitalisti, proprietari delle grandi piattaforme sociali, siano animati solo da buoni pensieri. Per loro la dizione buoni pensieri è sinonimo di buoni affari. Per questo vogliono ripulire le loro piattaforme dai gravi difetti che le hanno alimentate ma che ora potrebbero minacciarle.
Prendiamo i selfie. Da fenomeno prettamente narcisistico è diventato un grande business. Da uno studio condotto dall’equipe di Maurizio Tesconi del Cnr di Pisa e ripreso da Laura Montanari per una bell‘inchiesta su la Repubblica, emergono cifre sulle quali troppo poco si riflette che fanno parte dell’economia del selfie, dizione apparsa per la prima volta su Bloomberg nel 2014. Si calcola che siano 93 milioni i selfie scattati ogni giorno e i più assidui in questa pratica siano gli statunitensi tra i 18 e i 34 anni i quali spendono all’incirca 200 milioni per l’acquisto si aste per selfie.
L’Italia è ai primi posti nella classifica, se si rapporta il numero delle pratiche alla popolazione attiva. Con una prevalenza delle donne. Ormai è diventata una gran moda nel turismo, dove si vendono pacchetti che facilitano l’uso del selfie, con invenzioni commerciali a dir poco originali: in un bar di Londra è possibile consumare un “Selfieccino” (cioè un cappuccino con la faccia del cliente che lo consuma) al costo di 6 euro e 50 mentre il costo di un “Selfie Tour”, organizzato da un hotel di Parigi è di 995 euro.
Sono solo due casi tra le molte proposte che oscillano tra il selfie davanti al David, o con l’acropoli come scenario o di fronte alla bestia feroce, durante un safari. Dive c’è selfie c’è business. C’è poi un costo sociale che è preso poco in considerazione e che è stato riportato alla nostra attenzione da recenti tragici fatti accaduti anche in Italia: sono 259 le persone morte tra il 2011 e il 2017 facendosi un selfie.
Quella fisiognomica che inizia a far paura
Il selfie è il paradigma di questo nostro tempo che torna a esser dominato dalle immagini, dai nostri volti. Un linguaggio che è sempre più studiato nei centri di ricerca, nelle università e che per ora, però, non è sufficientemente preso in considerazione da chi su occupa di bene pubblico, come la politica. Ed ecco anche perché la fisiognomica sta di nuovo diventando una disciplina che incuriosisce e che trova nuovi sbocchi e possibilità di sviluppo.
Proprio questa settimana si è aperta, a Torino (Mole Antonelliana), una mostra, “//#FacceEmozioni. 1500-2020: dalla fisiognomica agli emoji”, organizzata dal Museo Nazionale del Cinema. Leggere il viso, interpretare le espressioni, è stato sempre naturale: da Leonardo da Vinci a Cesare Lombroso la strada è lunga e lastricata di buone intenzioni e di cattive pratiche. Anche da questa mostra emerge lo stesso spinoso problema che sta alla base della lettura del volto: a cosa serve riconoscere certi caratteri delle persone se non per prevederne (o predirne) il comportamento e quindi controllarle?
Si domanda Davide Ferrario nell’anticipazione della mostra su La lettura per il quale “quello che può sembrare a prima vista una specie di gioco innocente e piacevole ha in sé i germi dell’autoritarismo poliziesco, quello che classifica gli uomini perché hanno «facce da galera». In epoca di tecnologie di riconoscimento facciale sempre più sofisticate la questione non è accademica, ma sostanziale”.
Riprendendo il titolo del suo articolo: c’è ormai una fisiognomica che inizia a fare paura e in pochi, troppo pochi, chiede, dove andranno a finire i milioni di foto che produciamo e immettiamo nel gran bazar della postmodernità.
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