Kyenge, la condanna
di Calderoli segnale
ad un Paese alla deriva
Roberto Calderoli, chirurgo maxillo-facciale e odontoiatra di Bergamo, assurto a gloria politica, ai ministeri e alla vicepresidenza del Senato, assai corpulento e rosso in viso, preistoria della Lega Nord inventata dall’indimenticabile Umberto Bossi, straziata ora da Salvini, è stato condannato a un anno e mezzo di reclusione per diffamazione aggravata dall’odio razziale.
Il 13 luglio 2013, quasi sei anni fa, il senatore leghista, in un comizio a Treviglio, davanti a un migliaio di persone, se l’era presa con l’allora ministro per l’Integrazione, italiana di origine congolese: “Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto — aveva declamato al microfono —, ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di un orango”. Le cronache non riferiscono come venne accolta dagli astanti la brillante considerazione: immagino tra applausi di incitamento e risate consenzienti. Ondata di proteste, da più parti, contro Calderoli, da Napolitano presidente della Repubblica a Letta presidente del Consiglio, persino dall’Onu. Tempo quattro giorni e Calderoli veniva indagato dai pm di Bergamo Gianluigi Dettori e Maria Cristina Rota con l’ipotesi, appunto, di diffamazione aggravata dall’odio razziale.
Calderoli si era poi scusato e aveva offerto un mazzo di fiori a Kyenge. La vicenda era comunque approdata in tribunale e il processo era iniziato. Salvo poi bloccarsi nel 2015, quando il Senato, in commissione e in aula, sentenziò e votò (con il contributo di una parte del Pd) che definire “orango” Cécile Kyenge per un parlamentare equivaleva a esprimere un pensiero politico, un pensiero, si fa per dire, quindi “insindacabile”… testimoniando così, ampiamente e autorevolmente, quanto in basso fosse già allora caduta la cultura politica in Italia, approdando all’insulto come strumento fondamentale di confronto e di argomentazione… La discesa non sarebbe finita lì.
Il Tribunale di Bergamo però non s’arrese e sollevò il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato. La Corte costituzionale gli diede ragione, accogliendo il ricorso. Con la condanna di Calderoli siamo alla conclusione, provvisoria perché siamo al primo grado e nessuno può dire come finirà.
Calderoli, l’inventore del Porcellum e di un sistemino per produrre emendamenti a raffica (nel 2015 cinquecentomila da presentare in un sol colpo in commissione più un altro bel saccone di 82 milioni in aula contro la proposta di riforma del Senato), campione al tempo stesso della semplificazione burocratica (ricordate i roghi di leggi e regolamenti?), non mancò in un passato di sicuro più fragoroso per lui, di regalarci senza scomodare il nobile orango altre preziose esternazioni. Tra le quali: “Quella di Berlino è una vittoria della nostra identità, dove una squadra che ha schierato lombardi, campani, veneti o calabresi, ha vinto contro una squadra che ha perso, immolando per il risultato la propria identità, schierando negri, islamici e comunisti” (dopo i mondiali del 2006 vinti dall’Italia di Lippi), “Sì ai campanili, no ai minareti”, “Gli immigrati musulmani vengono in Italia a chiederci di togliere i nostri crocifissi o di rinunciare al nostro Natale e ai nostri presepi! La porta è sempre aperta: tornino giù nel deserto a parlare con i cammelli o nella giungla con le scimmie!”, “La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni. Qua rischiamo di diventare un popolo di ricchioni”, “Dare il voto agli extracomunitari? Un paese civile non può fare votare dei bingo-bongo che fino a qualche anno fa stavano ancora sugli alberi”. Eccetera eccetera.
E’ solo un rapido florilegio. La politica italiana ci ha regalato ben altro, trovando per ultimo sostanzioso nutrimento nelle invettive di Grillo e nei commenti dei suoi fans. Questo è lo stile vincente. Mille volte si è commentato all’ascolto di un talk show televisivo “sembra di sentire gli ultrà della curva”. Mai sensazione fu più fondata: Calderoli che tira in ballo l’orango per contestare la politica della Kyenge (questa fu allora la sua giustificazione a sostegno della tesi del “giudizio politico”) fa il paio con i simpatici tifosi che rovesciano i loro “buu” sul bravo, paziente Koulibaly, con la scusa di incitare la squadra del cuore. Come Calderoli sosteneva d’aver chiamato in campo l’orango per una simpatica, gioiosa, allegra tirata d’orecchi alla ministra, così Salvini individua nel buu della curva una inoffensiva anzi affettuosa manifestazione di sostegno ai colori calcistici.
Le conseguenze le ho ritrovate leggendo i commenti alla notizia della sentenza pubblicata da un giornale della vecchia destra, diviso ora tra simpatie leghiste e incoraggiamenti ai pentastellati: un fiume di insulti nei confronti della solita magistratura filocomunista, una marea di volgarità nei confronti di una indistinta sinistra colpevole di sobillare i giudici medesimi, tra tante strizzate d’occhio al Calderoli, la vittima che per una innocente battuta deve subire l’ostilità dei soliti sinistri. Guai a tirare in ballo il razzismo… gli italiani non sono razzisti. Inutile ricordare le leggi razziali (solo in fondo settant’anni fa), le nostre guerre coloniali, la bella abissina che doveva solo aspettare e sperare, il nostro contributo alla deportazione degli ebrei… e pure il nostro maschilismo, la nostra avversione nei confronti del “diverso” di qualsiasi genere, il nostro esercizio di neoschiavismo nei campi dei pomodori… Non siamo razzisti…
Gli italiani non sopportano l’accusa di razzismo. Invece il razzismo ha ritrovato negli anni, dagli antichi manifesti tipo “Roma ladrona”, dalle mire secessioniste alla propaganda di Salvini, un imprenditore politico, sempre più arrogante, sempre più vociante (grazie anche ai telegiornali a reti unificate), sostenuto da gente impaurita e, scusate, ignorante. Razzisti perché ci consola scovare un nemico, perché scovare un nemico significa rabberciare qualche forma di appartenenza, di comunità, di difesa,di auto-assoluzione. Ricordo, dopo il ritrovamento del cadavere di Desiree nella palazzina abbandonata di San Lorenzo, una donna urlare ai microfoni di una televisione violenze contro gli immigrati. Nell’aria di una notte tragica risuonavano parole come “forca”, “assassini”, “ammazziamoli tutti” e naturalmente “prima gli italiani”. La donna non sapeva evidentemente che sono italiani i più attivi organizzatori dello spaccio.
Calderoli non finirà mai in carcere. Ma i giudici hanno dato un segnale e in un paese alla deriva politica e culturale almeno una voce s’è sentita.
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