Inquiete al Pigneto. Le parole si fanno donna in un festival di letteratura

Certo, un festival di donne. Certo, un festival di letteratura. Ma ad affollare le sale e i luoghi di “Inquiete” –  la rassegna organizzata per il secondo anno da Associazione Mia e Tuba al Pigneto – non sono solo donne. Perché le autrici sul palco sono di pregio, i temi scelti intriganti, la passione per i libri sincera.
Inquiete il titolo, ma l’inquietudine, in questi tempi complicati e oscuri, è di prammatica in ogni iniziativa del genere. In questa, si cerca una ragione, si cerca di andare nel profondo. Si indagano parole, fatti, mondi. Sentimenti, anche. Quietamente inquiete, anche se è un ossimoro, non per questo qui è meno vero. Singolarmente rispecchiato nel logo dell’iniziativa, disegnato da Maria Giulia Colace: una giovane donna seduta che accarezza un drago, nato dai suoi capelli, che tiene in grembo.
Una cinquantina di eventi affollatissimi, tra presentazioni di libri, dibattiti, incontri con autrici o scrittrici da riscoprire, dipanati su quattro giorni. I fili rossi che li percorrono sono diversi. Del tutto arbitrariamente eccone uno, il valore della scrittura, il suo senso. Kafka diceva che un libro dev’essere come un’ascia: colpire, ferire, aprire una strada che prima non c’era.

Cinema l’Aquila, Inquiete festival. Foto di Ella Baffoni

Di questo parla Valeria Viganò (“Siamo state a Kirkjubaejarklaustur”, “La scomparsa dell’alfabeto”) quando presenta Ingeborg Bachmann (“Il caso Franza”, “Malina”, “Il trentesimo anno”, “Troviamo le parole”) autrice di enorme valore ma troppo facilmente dimenticata. Un’autrice, ricorda Viganò, che se ne fregava del mercato ma che pensava che le parole fossero molto importanti: Perché leggere un libro se non ti dà un pugno in testa? La letteratura vera, non quella di intrattenimento per quanto ben scritta, ha un passo diverso, è un domandarsi: un atteggiamento raro, dice Viganò, “in questi tempi di letteratura disimpegnata, ben armonizzata con un paese che marcia verso la non cultura”. Le parole di Bachmann, la sua scrittura, aiutano chi cerca di capire la differenza, il sentire delle donne.
Aiutano anche a vivere. “La scrittura è il mio modo di affrontare la vita – dice Silvia Avallone (“Acciaio”, “Da dove la vita è perfetta”) – attraverso le vite degli altri affronto le interrogazioni che mi pressano. Leggere non è una fuga, ma una presenza nella mia vita. E poi, non basta leggere: i testi migliori diventano presenze, l’effetto è rivoluzionario. Quanto a me, per scrivere ho bisogno di luoghi. Parto, o prendo il tram: la mia scrittura ha bisogno di paesaggi, è orizzontale”.
Quella di Chiara Gamberale (“Una vita sottile”, “La zona cieca”, “Adesso”) invece, è verticale. “Scrivo di mutazioni, di cambiamenti. Le mie storie potrebbero avvenire in quasi tutte le città, indifferentemente. Ho bisogno del cambiamento emotivo, anche se il cambiamento fa paura. Eppure bisogna scegliere, e accettare il cambiamento. Leggere ci aiuta a pensare diversamente, ci dà parole diverse e nuove: è un atto di libertà”.

Valeria Viganò. Foto di Ella Baffoni

Il cambiamento, sì, Ma “spostarsi, anche senza i viaggi terribili che fanno i migranti, è sempre uno strappo – ragiona Lisa Ginzburg (“Desiderava la bufera”, “Buongiorno mezzanotte, torno a casa”) – un po’ placa, ti dà una casa in cui stare. Ma la nostalgia spinge allo spaesamento a vivere tra paesaggi emotivi diversi. Da tempo vivo a Parigi, un non luogo. Certo, è bellissima, ma ci si sta senza abitarla. Quel che mi fa paura è lo stare né lì né qui: non quando scrivo, però: l’italiano è la mia casa”.
La mia casa è dove sono, è il titolo di un libro di Igiaba Scego (“La nomade che amava Alfred Hitchcock”, “La mia casa è dove sono”, “Adua”). Che vive da sempre in Italia tutte le contraddizioni (e le discriminazioni) della seconda generazione, divisa tra due culture, due patrie. Perché, dice con grande saggezza, il proprio luogo è lì dove lo segna la geografia emotiva, non quella fisica o quella politica. Lavorando con un gruppo di richiedenti asilo, racconta, ha ridisegnato con loro la mappa di Roma: “Ma il centro non era il Colosseo o piazza Venezia, o via del Corso, o piazza Argentina. Il centro era lì, alla Stazione Termini. Luogo di arrivo, di cambio di autobus, di appuntamenti e incontri”. Chissà se quello stesso gruppo ridisegnasse una geografia di parole, in quali strade impervie e insolite ci si avventurerebbe.